Scuola e Università

I diciott’anni rappresentano una tappa fondamentale nella vita dei giovani canadesi: esami provinciali per il diploma di scuola secondaria (qui obbligatoria) e stacco dalle famiglie.

Non li ho visti appassire sui libri i miei figli, nemmeno in preparazione degli esami. Sembrano che i corsi di studio non siano molto impegnativi e le materie più difficili sono obbligatorie solo per chi vuole iscriversi all’università, con il risultato che ci si può diplomare per esempio studiando economia domestica, lavorazione del legno, disegno, educazione fisica o quant’altro (una marea) disponibile. Nemmeno le pretese da parte degli insegnanti sono assurde, tutt’altro. Gli studenti sono per lo più giustificati, capiti fino all’inverosimile, e blandamente incoraggiati. Un professore di matematica ebbe l’ardire di scrivere sulla pagella quadrimestrale di mia figlia che un misero sei era più che soddisfacente perché palesava gli sforzi compiuti dall’alunna. Ma di quali sforzi parlava se quella passava tutto il tempo a cinguettare con le amiche?

Con fare gesuitico, ed in più da ex-insegnante mi recai subito dal suddetto e gli esposi tutte le mie rimostranze, facendogli presente come (opinione sempre personale, ma interessata) stava così minando il futuro di mia figlia. Era una persona in gamba, capì le premesse e le conseguenze; senza affliggere la studentessa in questione, ma con la sua collaborazione, si riuscì a farla diplomare con un bel nove in matematica.

L’esempio è triviale ma necessario, dal momento che mi chiedo spesso se non stiamo danneggiando più che aiutando questi giovani con un atteggiamento eternamente comprensivo, da statua immobile, come quella della libertà, che sbandiera in un paese dove la libertà, scrisse Arundhati Roi, è una patata fritta. Non so se sia meglio capirli e scusarli o spronarli e pretendere.

Comunque l’ultimo anno di scuola viene passato ossessionati dalla preoccupazione della graduation – cerimonia, festa, escursione, ballo di gala – e gli esami sono solo un codicillo superfluo e tedioso. Che con tante cose da preparare ci siano anche degli esami è il colmo, ma uno dove lo va a prendere il tempo? e meno male che il diploma glielo danno a giugno, prima ancora di farli quegli esami…

A quante scene da crepacuore e mozzafiato ho assistito durante l’ultimo anno di studi di mia figlia!

Per il diploma di mio figlio, il maggiore, eravamo in Messico. Lui frequentava un liceo internazionale, abitudini diverse (sì, sì, anche per lui il telefono erano i libri e gli amici i professori, ma quando andai a protestare con l’insegnante d’inglese perché non vedevo mai studiare mio figlio, lei mi rispose che dovevo essere ben contenta se lui conquistava certi risultati impegnandosi così poco – e mi zittì – per tre giorni…), grande festa, ma niente da rompicapo; per mia figlia si cominciò a parlare del vestito della grande sera dal mese di ottobre. Gli armadi delle amiche si riempivano di tentativi, perché noi non l’avevamo ancora cercato? Lo trovammo dopo Natale, uno di quei cosi lunghi da sera a un prezzo favoloso, perché scontatissimo. Stoffa e taglio niente di straordinario, ma il colore era da sogno ed a lei stava bene e poi, non essendoci tradizione simile in famiglia, la bimba capì subito che il grattacapo era suo e non sarebbe mai stato mio.

Animo tranquillo e matematica che progrediva, che si voleva di più dalla vita? Un date!!! Mancava un date, un ragazzo con cui fare la grande apparizione la serata della cena e del ballo, perché la sacrosanta prassi è che si entra nel salone di un magnifico e lussuoso hotel, al braccio di un ragazzo – se è la diplomata la festeggiata – o viceversa se è il ragazzo a terminare gli studi. Un professore all’ingresso del salone annuncia i loro nomi e la coppia fa l’entrata maestosa, mentre tutti gli astanti – parenti, amici e conoscenti – già seduti ai tavoli per la cena, applaudono con grandi battimani. Quindi non si poteva, era un no no no arrivare senza il cavaliere. E dove l’andava a trovare un date lei (mia figlia), che aveva passato i primi tre anni della scuola superiore in Messico, che era tornata in Canada l’anno prima ed era stata invitata (semi obbligata dalla madre) ad andare in una scuola per sole donne? Come faceva a conoscere ragazzi se le sue attività complementari erano danza classica, dove non aveva mai incontrato un esemplare dell’altro sesso e pianoforte con lezione individuale? Dove, dove, dimmelo tu? Ma perché mi hai mandata a questa scuola? E perché ce se siamo andati in Messico prima di tutto e così ho perso gli amici? E perché poi ce ne siamo venuti dal Messico dove avevo tanti amici? Insomma, eccomi qui a fautrice del suo destino e con la colpa di essere la causa di tutte le sue disperazioni che… meno male… arrivavano come la luna piena, soltanto una volta al mese.

Si salvò dalla luna storta un ciclo, quando incontrò ad una festa organizzata dalla scuola uno studente di un istituto per soli maschi, che ebbe però il difetto di innamorarsi di lei (che invece cercava solo un date per quella famigerata sera). Si promisero tuttavia, dal momento che ambedue ne avevano bisogno, di aiutarsi a vicenda, lui sarebbe stato il suo cavaliere e lei la sua damigella – in alberghi e giorni separati.

Date a posto, vissi momenti di relativa serenità. Si fa per dire, mancava il vestito per la cerimonia a scuola, mancava quello per la gita in barca dove pure avrebbero ballato. E così, altra ricerca negli armadi (miei) per propinarle gonne e camicie che non mettevo da anni pur se ancora impeccabili e decenti, seguita da rifiuti (suoi) più o meno giustificati ed alla fine il compromesso: si compra quello per la barca, ci si arrangia per la scuola.

Risolto tutto? ma no, che illusione!

Per andare al salone dobbiamo affittare una limousine. Siamo in quattro amiche, più quattro dates, ci costa centocinquanta dollari a persona, la limousine è a nostra disposizione dal pomeriggio, l’autista ci viene a prendere, ci porta al parco per le foto, ci accompagna in albergo e poi ci riprende di notte per portarci a casa di Ashley dove andremo a dormire.

(No, no la limousine proprio no! Ma figlia mia, come puoi infrangere un’ideale di libertà che tua madre ha cercato d’inculcarti da quando sei nata, come puoi sottoporti a quest’usanza miserevole americana!)

“La limousine? E perché? ma perché dovete seguire queste barbare usanze, perché non diventate rivoluzionari? La mamma di Ashley ed io vi prendiamo tutte e vi accompagniamo con la nostra macchina…”

“Mamma!!!!!???? (leggi troglodita) che ti viene in mente? Tutti affittano una limousine!”

“Appunto! E voi fate diversamente!… Sì, che idea! Ashley sa andare a cavallo, no? allora affittate un traino e vi lasciate tirare da lei…”

“Una zucca magari, come Cenerentola… mamma, come fai a pensarle certe cose?”

“E allora perché non prendete l’autobus?”

“L’autobus????” Mi guarda come fossi fuggita dal manicomio federale. L’ignoro. Insisto.

“L’autobus, oppure un furgoncino, uno di quelli da lavoro. Papà vi porta, e voi arrivate, tutte e quattro, con i vostri abiti lunghi sedute sulle panche di alluminio. Pensa che effetto, sareste su tutti i giornali l’indomani! Veramente buttate i soldi pagando quelle somme inutili, anzi, un’idea favolosa, i soldi che volete investire per la limousine, li portate a quell’ostello per poveri che è in centro e così regalate un pasto e un letto a chissà quante persone! Ed alla festa, sul serio, vi portiamo noi, dappertutto, fino a quando volete.”

Rimane un po’ meditabonda la ragazza, forse in fondo si rende conto anche lei che ci si può diplomare in maniera diversa. Il discorso cade al momento, sento che sarà ripreso.

Ne parlo con la mamma di Ashley, ormai parto all’attacco come un aereo da entusiasmo. Marianne mi ascolta come se fossi invalida o semincosciente. La fa ridere l’idea ma non si sposta più di un centimetro.

“Sai, mi dice, io mi ricordo ancora della mia festa del diploma. È importantissima qui, soprattutto per le ragazze, è un rito, una specie di festa di matrimonio… perché non sai se si sposeranno domani, se avranno quel giorno di gloria e allora…”

(e allora per evitare carenze si premuniscono e festeggiano prima, no, non mi convince, devo contrattaccare)

“…. ma è uno spreco inutile, l’interrompo… Per esempio, perché non proponiamo alle ragazze di andare in bicicletta… sui pattini…”

Scoppia a ridere.

“Non ce la farai mai, mi consola, la tradizione è troppo forte.”

E chi mi ferma? Torno all’assalto due volte al giorno con mia figlia, come le maree, e lei un momento mi ascolta e si lascia bagnare, un altro se ne vola come un corvo infastidito.

Dopo un tirare da parti opposte e col pericolo che la corda si spezzi e ci renda nemiche asserragliate, mi convinco che non c’è compromesso, cedo come un limone marcio, anche perché un temporale più grosso minaccia all’orizzonte: la rottura con Anton, il ragazzo incontrato alla festa e con cui si erano ripromessi reciproco aiuto.

Non me lo nominare nemmeno, non voglio sapere che esista!

“Ma tu gli hai promesso di accompagnarlo alla sua festa e lui ora come farà se lo pianti in asso?”

“Non ti preoccupare, ci andrò alla sua festa, non gli faccio il bidone, ma poi non voglio più sentir parlare di lui… e lui alla mia… mai! Hai capito, mai!”

“E come farai?”

“Non m’importa.”

“Ah.”

Un mese prima dell’evento è in crisi nera.

“Non puoi far accompagnarti da… da Richard… o da… Frank.. o (sono tutti amici di famiglia e di mio figlio)… o Romeo…”

Mammaaa!

L’urlo mi incenerisce e ancora bollente apro il frigo e mi accingo a cucinare. Però lei e i suoi problemi sono sempre lì, piantati nella mente come un seme di sequoia che germoglia e ingigantisce al secondo. Presto avrò una foresta in testa. È per questo che quando mi rinnova la storia della limousine, persisto, insisto, ma come un lucignolo agli sgoccioli alla fine cedo. Povera figlia, già ha il problema del date, adesso pure io mi ci voglio mettere… e sentendomi Giuda (verso le mie convinzioni) perisco a capofitto.

Eccoti i soldi per la limousine.

Una settimana prima della festa il temporale.

“Il mio vestito è uno schifo, mi sta malissimo, ci sono quelle che se lo sono fatte venire da New York, quelle che hanno speso più di mille dollari… anche un morto vede che il mio non ne costa nemmeno cinquanta, mi stringe sui fianchi, sta male, sta male…”

Arriva la crisi, il pianto, la corsa nella sua camera, la porta sbattuta, il mio cuore che fa patapum, la mia voglia di aiutare, la sua avversione all’assistenza…

Quando la burrasca si acquieta un poco le propongo alcuni negozi dove mi è sembrato di vedere begli abiti da sera per ragazze. Mi accompagna di malavoglia, se li prova senza nessun interesse, decide da persona matura e saggia quale in realtà è che non vale la pena comprare nient’altro, metterà quello che ha.

E adesso la domanda che mi preme da un pezzo e che ho evitato accuratamente di formulare per timore di risvegliare tempeste…

“…con il date hai deciso che fai?”

“Ah, sì, sì, nemmeno Sue ce l’ha, abbiamo deciso che andiamo tutte insieme, Ashley, Sue, Rebecca ed io, forse anche Cathy e Robin entreranno con noi, insomma… tutte ragazze…”

“Questa sì che è un’idea fantastica!!! E i loro cavalieri come arriveranno? Voglio dire quelli che accompagnano le tue amiche…”

“Ah, da soli, nemmeno annunciati.”

Sono così orgogliosa di mia figlia! Evviva l’amicizia e il femminismo.

… e quella fatidica sera, il loro ingresso, sei ragazze bellissime nei loro abiti da sogno, fu davvero trionfale. Furono le ultime ad entrare e i battimani arrivarono così calorosi ed entusiasti da parte di tutti i presenti che se ne parlò per un pezzo di quella semi-rivoluzione.

Si può intuire il pavoneggiamento materno.

La lasciammo dopo cena, tornò a casa verso mezzogiorno del giorno dopo, dopo una nottata, cominciata all’alba, a casa di Ashley.

Sembra che la prassi sia di ubriacarsi fino alla nausea alla festa di fine anno. Ai giovani qui è vietato entrare nei pub fino ai 18 anni, vietato comprare alcool, vietato consumarne, insomma un tabù da prendere a calci e incenerire per sempre quella fatidica sera. Lei mi raccontò che loro non avevano consumato alcool.

Anche se il diploma non è arrivato e gli esami sono ancora da sostenere, gli studenti che vogliono proseguire gli studi sanno già per quale università partiranno in autunno. Dal momento che sono tutte a numero chiuso, bisogna presentare domanda fin da gennaio, febbraio e le prime risposte di accettazione arrivano ad aprile.

Oltre al prom-ballo di cui sopra, alla limousine, alla sbornia-svezzamento, un’altra abitudine nordamericana è quella di allontanarsi da casa per l’università, cambiare aria, andare altrove, lasciare la famiglia e, anche se si rimane nella stessa città, andare a vivere al campus.

Le lezioni cominciano a settembre e terminano a fine aprile. I corsi sono semestrali o annuali e gli esami si danno a dicembre ed aprile. Non si vivono le vacanze natalizie assillati da libroni da ingurgitare. I voti finali risultano dalla media di due valutazioni, una intermedia e l’altra finale, e dai risultati di varie tesine presentate durante il corso. Non è possibile ridare un esame due mesi dopo, e l’anno accademico è strutturato come un anno scolastico; se non si supera un esame bisogna ricominciare daccapo quel corso, oppure frequentarne un altro d’estate o l’anno successivo.

Che cosa fanno gli studenti d’estate? Lavorano! Tutti. Hanno bisogno di guadagnare per pagarsi gli studi. Non sono tanti i genitori che li sovvenzionano. È così la prassi: a 18 anni te ne vai di casa, ma ti mantieni. Lo stato interviene con dei prestiti che tuttavia bisogna cominciare a restituire appena laureati. È normale che un giovane si ritrovi a 22 anni con la laurea in tasca, ma con 70mila dollari di debiti verso lo stato, per questo quasi tutti approfittano della pausa estiva per lavorare ed avere un minimo di disponibilità finanziaria.

I campus sono in generale attrezzatissimi, con strutture accademiche e sportive di prim’ordine, delle vere cittadelle del sapere… almeno all’apparenza.

E qui mi torna alla mente la villetta sul mare, una dependance della mia università dei primi anni settanta. Bisognava arrivare all’alba per sperare di ottenere un posto tra le prime file, altrimenti chi mai sarebbe riuscito a capirlo quell’assistente francese mentre faceva il dettato? E che ci voleva a sbagliare tutto e giocarsi l’esame? Begli anni tuttavia, nonostante tutto, nonostante i travagli per la tesi…

La tesi!!! Il docente che non mi seguiva… si nascondeva, scompariva. Come facevo a procedere se quello era introvabile, non si presentava a lezione, oppure se arrivava e lo bloccavo in corridoio, in malo modo mi rispondeva che non aveva tempo e di parlargli dopo? Dopo… quando? Dopo… dove?

In segreteria nessuno sapeva di lui (o tutti fingevano di ignorare tutto di lui… ma comunque… non ce l’abbiamo, ma anche se ce l’avessimo… non possiamo mica darle il numero di telefono dei docenti? E che scherziamo!)

I padri eterni si pregano, non s’interpellano.

Ma io mica potevo starci tutta la vita su quella tesi, e in più lavoravo, e in più avevo un viaggio di sette ore dalla mia sede all’università…

Mi disperai non poco; alla fine fui costretta a corrompere il bidello (che accettò solo perché ero nipote di caio che era cugino di tizio che era amico di sempronio) il quale mi suggerì in confessione di trovarmi nell’atrio alle sei e mezza di un tale mercoledì sera e finalmente sbarrai il passo allo sfuggente Giove. Il quale mi appioppò all’istante all’assistente che non mollai fino a quando non accettò di leggere le cinquanta pagine che avevo pronte da tre mesi.

Anche mia figlia sta preparando la tesi presso un’università canadese.

Ha cominciato a lavorare con la docente che la segue da circa un anno, prima come assistente di laboratorio per imparare e poi con la ricerca personale. Ogni settimana passa almeno tre ore a discutere con lei dei suoi progressi, ogni due settimane le invia un capitolo dopo l’altro che la prof legge, corregge, taglia, amplia, modifica, come un lettore attento che passa ore e non secondi ad esaminare…

Un altro aspetto piacevolissimo del rapporto tra studenti e professori è che qui si chiamano tutti per nome e, dal momento che non c’è distinzione nell’uso della forma del verbo e del pronome – che ci si rivolga a un amico o al presidente sempre you si usa e non il distintissimo lei italiano che innalza un muro invalicabile – allora si ha la sensazione che ci si conosce e ci si capisce da tempo immemorabile.

Te l’immagini chiamare per nome i docenti con cui abbiamo preparato la tesi? noi che… ci raccontiamo con la mia metà, neanche il titolo ‘professore’ consideravamo adeguato. Non erano quelli dei scesi dall’olimpo? e allora, come ci si rivolge a un dio?

Meno male che il riso dissacra i ricordi…

A un certo punto della mia vita in Canada frequentai anche alcuni corsi universitari, per lo più di scrittura creativa, in cui mi trovavo a far parte di una classe di una ventina di studenti (dovendo leggere e scrivere molto il numero di partecipanti era limitato). C’era sempre qualcuno nel gruppo che aveva più di trent’anni, come me, tutti gli altri avevano da poco superato i venti.

Ricordo la prima volta: erano passati oltre dieci anni dall’ultimo olimpo italiano, ma le immagini non erano affatto affievolite. Per questo sgranavo gli occhi come una marziana quando, guardandomi intorno in classe, in ogni direzione ne scoprivo una nuova. Qui uno studente allunga le gambe sul tavolino di fronte, lì un’altra sgranocchia un biscotto, a fianco un altro sorseggia rumorosamente da una lattina di coca cola e quell’altro laggiù ha scoperchiato un barattolino di yogurt a vi affonda un cucchiaio vorace. Ma che? Ho sbagliato classe e sono finita al ristorante? E quante bottiglie di acqua, di tutti i tipi, dimensioni e colori in giro! Sembra che la maggior parte degli studenti provenga da un’astinenza totale e prolungata di liquidi e solidi e che abbia soltanto queste due ore per rifocillarsi… poi sarà costretta al digiuno.

La mia prima reazione è: ma come fanno? ma non si vergognano? ma non hanno rispetto per il professore?

Mi aspettavo che lui sbraitasse da un istante all’altro, ma quello sorrideva come i putti del Rinascimento e dissertava di Browning e Joyce con la più grande magnanimità e comprensione.

Lo sbalordimento divenne totale e catastrofico quando sentii dei giovincelli appena sbarbati rivolgersi all’emerito professore apostrofandolo col nome, Jerry, che cosa dicevi Jerry, poco fa? Volevo diventare paladina, prendermi lo scudo e scagliarmi accanto all’offeso…

Ma quale offeso! Qui tutti per nome si chiamano, vanno perfino nei caffè insieme, studenti e docenti e, prenderne nota, ogni professore è tenuto a rimanere nel suo ufficio, a disposizione degli studenti, per due sacrosante ore a settimana e… ovviamente… non c’è bisogno di corrompere nessun bidello per ottenere il suo numero di telefono!

Argomenti di conversazione

“Non parlare mai di politica!” mi aveva subito avvertita un’amica al mio arrivo in Canada. Se ti sentono dissertare di liberali e conservatori subito ti classificano comunista!

“Ah. E se anche fosse?”

“Vuol dire che poi nessuno ti vuole più vedere, il comunismo qui è come il diavolo.”

“Pensavo che non fossero cattolici.”

“È vero, trovi tremila chiese di altrettante denominazioni diverse, ma il diavolo ha un posto, un nome e una faccia.”

“Quella del partito comunista…Che poi non esiste nemmeno, è talmente piccolo che se scompare non se ne accorgono nemmeno gli stessi iscritti. Ma qui c’è una sinistra?”

“Diciamo che esiste una sinistra annacquatissima, il partito dei nuovi democratici… ed eccoci qua, vedi la mania italiana? di che stiamo parlando? di politica!”

“Ma siamo solo noi due! E va bene, cambiamo argomento, di che posso parlare con gli amici senza farmi isolare e senza farmi catalogare rivoluzionaria e terrorista?”

“Del tempo, te l’ho già detto, e poi di hockey, anche di calcio se vuoi, insomma tutti gli sport vanno bene.”

“Ma io non so niente di sport!”

“E allora parla del tempo! e poi, per carità non chiedere mai quanto guadagnano.”

“Nemmeno di lavoro posso parlare?”

“Sì, ma non in dettaglio, e… non ti appassionare di nulla, conserva sempre il tuo sangue freddo, dai l’immagine di essere distaccata ed in controllo… insomma, hai presente il tipico inglese che non si scompone di nulla?”

“Vuoi dire quello che, anche se piove va in giro con l’ombrello chiuso pur di non mettere in movimento i muscoli facciali e corporali?”

“Esatto. Così devi essere.”

Le prime volte rimasi zitta. La limitata conoscenza dell’inglese era d’altronde un facile alleato. Ascoltavo, mi annoiavo, non sono proprio una ciarliera, ma mi piace interagire. Poi cominciarono i primi approcci. Non è che l’argomento tempo fosse inappropriato o fuori luogo. Soltanto di quello parlavo, non riuscivo a capacitarmi, era piovuto per tutto quel primo inverno, aspettavo la primavera disperata e… diluviò in aprile, venne una pioggia disperata a maggio (per tutto il mese) e fece perfino straripare fiumi a giugno. A giugno? 1l 21 giugno? Quel famoso giorno della mia nascita e dell’arrivo dell’estate? Ma in quale emisfero vivevo? A giugno con l’impermeabile e i maglioni come in pieno inverno? Se spegnevo il riscaldamento a casa battevo i denti – la borsa dell’acqua calda era amica inseparabile nelle notti buie e tempestose – e se guardavo fuori dalla finestra sentivo scendermi una malinconia suicida addosso. Mi sentivo in una pentola a pressione, le nuvole come un coperchio schiacciato a comprimermi e con la certezza che pur entrando in ebollizione, non avevo nessuna speranza di venirne fuori. A meno di non partire. Per l’isola di Vancouver, che bella! non l’avevo ancora vista. Al mare, sulla spiaggia a metà luglio. Mi portai due costumi da bagno, uno per il ricambio e l’altro per le lunghe nuotate.

Dopo due giorni di scrosci ininterrotti e di un cielo nero come il tizzone, di un freddo inverosimile che entrava nelle ossa e da cui nemmeno maglioni e pigiama servivano più a proteggermi, dopo una settimana di speranze trafitte, sconfitte, mentre dal finestrino dell’albergo osservavo rivoli di acqua spessi come catrame, tornai a casa, col fango che mi arrivava alle caviglie. Altro che sabbia e ondicelle da sollazzo!

E di che cos’altro potevo parlare degli amici? Ma che m’importava di Trudeau e Mulroney? Io stavo impazzendo con quella pioggerella leggera e persistente …ancora un po’ la casa l’incendiavo pur di vedere un po’ di rosso in quel grigio tramortente.

Non morii, mi ammalai di sad. Simpatica, eh, la malattia a doppio senso, sindrome da assenza di luce solare.

Il sole mi mancò tanto che non riuscii a funzionare, la depressione mi sommergeva, dovetti scapparmene in Italia, nella mia terra dorata e lì, di che cosa parlai con gli amici? Del tempo! del tempo di Vancouver! Per un mese intero. Quando ritornai nella terra adottiva il cielo non era cambiato, stesso colore, immutabile e prigioniero.

Col tempo non mi abituai, continuai a combattere, come don Chisciotte, contro i vetri… ma rigati di pioggia!

E di che cosa parlavo con i canadesi, rumeni, cinesi, francesi, giapponesi, inglesi, australiani, neozelandesi che affollavano casa mia? Del tempo! Di cui tutti sapevamo così tanto che ci nutrivamo e nauseavamo a vicenda. Un’amica mi confessò che oltre al grigio anche il verde le rimestava ormai le budella, perché la foresta pluviale indicava appunto… pluvia interminabile e un altro mi additò i suoi bicipiti sconsolato, se tu qui dentro pungi con un ago, mi disse, che cosa pensi che venga fuori? uno schizzo di acqua! Perfino dentro mi sta crescendo!

E sapessi a me la muffa! rincarò un altro.

Quando nacquero i bambini all’argomento tempo si aggiunse prole.

Ci fu il tempo delle pappe, delle cacche, dei malori non presenti in nessun’enciclopedia di nessuna biblioteca per l’infanzia, delle visite dai naturopati, dell’asilo, della scuola, mentre li aspettavo all’uscita, dopo che li accompagnavo all’ingresso.

Talvolta mi scoprivo ad intrattenermi anche con mamme che conoscevo a malapena, solo perché i nostri figli erano nella stessa classe. Ed allora, all’italiana – o, almeno alla maniera che io considero italiana – non mi permettevo mai di elogiare i miei figli, soprattutto se le altre genitrici si lamentavano per marachelle dei loro rampolli di cui io ero ben a conoscenza.

Come potevo permettermi di non dire nulla di negativo sui miei ragazzi quando l’altra mamma si chiedeva che cosa fare per cambiare quello sciagurato di un figlio? E così la rincuoravo dicendole che di marachelle tutti i bambini ne combinano, per esempio, ieri, mio figlio, non aveva fatto cadere la radio, non si era ostinato a non lavarsi i capelli, e mia figlia, non aveva urlato nel negozio quando non le avevo comprato quello che voleva?

Dicevo un po’ di verità, ma esageravo nei fatti, soprattutto per non isolare la povera madre accasciata per il figlio ed allora questa, improvvisamente, dopo un lungo periodo di riflessione, mi fa: senti, non pensi che sia meglio che i tuoi figli vedano uno psicologo? o uno psichiatra? ne conosco uno io piuttosto bravo, se vuoi ti porto domani il numero di telefono.

Alla proposta dello psicologo rimango muta, ma solo perché i figli della suddetta madre sono – e lo commentano molti genitori – da manicomio o prigione per giovani delinquenti, eppure io non mi sono mai permessa simili denunce o apprezzamenti. E lei… come OSA? ma chi pensa di essere? ma che crede che non sono una buona madre?  ma che pensasse ai figli suoi! ma tu vedi un po’, una vuole essere comprensiva e questi ti prendono sul serio e ti mandano all’ospedale. Insomma ci misi un bel pezzo a digerire e no, non digerii per niente, perché ancora ora, se ci penso, mi viene il mal di stomaco.

Colloqui

Sono stata a letto per otto giorni. Polmonite! aveva sentenziato il medico, mentre il mio corpo reagiva rantolando come uno straccio da pavimento ridotto a brandelli, cerchi di metterne insieme due pezzi e si squarcia dall’altro lato. Ma dove mi sono presa la polmonite, e perché, perché ho bisogno di questo spauracchio dal momento che credo che ci formiamo noi ogni malattia?

Non so, non ho ancora una risposta.

Tutto è cominciato tre settimane fa, con una mal di testa persistente che non si assentava nemmeno di notte. Non soffro di mal di testa, e tantomeno di emicranie. Perché questo dolore allora? L’unica immagine di un’espressione simile alla mia, carica di dolore e di un verdume da pesce imputridito era quella di un’amica afflitta miseramente dalla pioggia di Vancouver, le cui emicranie duravano settimane e persino mesi. Ecco qui, un’altra vittima dei ventisei giorni di pioggia, un grigio dopo l’altro, un ticchettio inesorabile dopo l’altro. Come faccio a guarire? imploravo, con la testa ciondoloni, se guardo le previsioni su internet mi deprimo ancora di più: la nuvola da cui diluvia acqua è ripetuta ininterrottamente per quattordici giorni e non va oltre solo perché le previsioni non vanno oltre.

In famiglia si sono impietositi e mi hanno mandata, con un biglietto ultima ora, per una settimana sulle spiagge messicane.

Ah, il piacere inarrestabile del sole sulla pelle, delle onde tiepide a dondolare il corpo, l’abbandono agli elementi, le scorpacciate di ananas e papaya, le passeggiate interminabili.

I ciottoli sulla spiaggia mi accarezzavano i piedi qualche volta, per lo più li indolenzivano o li ferivano, ma chi ci faceva caso dal momento che sapevo – con la mia  certezza – che così stimolavo il fegato, i reni e chissà quanti altri organi semi-ammuffiti dalla pioggia.

Mi rotolavo nell’acqua azzurra come se volessi farla entrare dentro di me, sostituirla a quella melma di alghe fetide che la pioggia di Vancouver aveva provocato. Mi sdraiavo al sole come mai ho fatto prima nei miei lunghi anni di vita, nella speranza che mi scaldasse ogni cellula, rallegrasse le più recondite. La notte dormivo pochissimo e non perché mi dessi a bagordi, ma non c’era verso per Orfeo di sdraiarsi nella mia stanza: soffrivo di un’irrequietezza persistente. E poi ho avuto brividi di freddo dopo cinque giorni di mare assiduo e poi la mia fame di mare mi ha riportata a nuotare, nonostante la stanchezza e un briciolo di sfinimento. Tanto domani parto, devo ingurgitare più sole che posso, così forse per un po’ come i cammelli vivo di rendita e riesco a sopravvivere a Vancouver.

Sul volo di ritorno ero seduta a fianco a due pesi medio-massimi e subito mi ha preso l’irrequietezza che lievitassero e mi schiacciassero durante la forzata permanenza uno accanto all’altro. Questi aerei per voli charter sono fatti per diminuire all’inverosimile lo spazio a disposizione di ogni passeggero, ed anche respirare profondamente può essere causa di intrusione nel campo vicino. Se poi si aggiunge che i nordamericani non brillano certo per le loro proporzioni aggraziate s’intendono bene le mie paure. A Puerto Vallarta per esempio quante pance e deretani smisurati ho evitato di guardare, ma distoglievo gli occhi da una protuberanza pantagruelica ed immediatamente altri duecento specimen facevano la loro apparizione nel campo visivo. Non c’era molto da distrarsi, i longilinei erano assenti come le farfalle bianche. E quanta solitudine trasudava da quelle pance smisurate di coppie super-maturate, quanta rassegnazione, quante frustrazioni! Lo stesso grigio del cielo di Vancouver. Quelli che invece avevano gioia di vita erano gli omosessuali. Ce n’erano molti sulla spiaggia ormai dedicata a loro. Abbronzatissimi e con corpi quasi perfetti, aggraziati nei movimenti e negli sguardi, sembravano contenti sul palcoscenico della vita.

Mentre nuotavo nel loro mare una medusa ‘mala agua’ mi ha dato il benvenuto sferzandomi brutalmente il braccio con un fiammante zigzag zorresco. Al bar-ristorante gay i camerieri impietositi mi hanno fornita di ghiaccio e limone da applicare sulla ferita. “Non ci sono meduse in Canadà?” mi ha chiesto un giovane dalla faccia sorridente e poi, rispondendosi da solo e con una gran risata “sì, ci sono, ma sono tutte congelate!!” Altro che congelate, liquefatte sono dalla pioggia che tambura sull’oceano come un gong!

Un sessantenne rigoglioso si è subito affrettato a sussurrarmi all’orecchio che ai Caraibi i bambini quando ti vedono punto da meduse ti offrono la loro pipì a un prezzo modico. Rideva complice e sornione mentre lo raccontava, come se non lo sapessi…

Dopo la prima medusa ci fu la seconda, meno aggressiva, ma sotto l’ascella e poi attacchi ripetuti da parte di insetti volanti e non, non identificabili. Il corpo somigliava sempre più a quello di un reduce da battaglia, ma mi stavo ubriacando di sole e di mare e pronta ad accettare tutto. O a godere di un nulla, dalla libertà di tuffare la testa sotto l’acqua – senza sentirla avviata al congelamento come capita a Vancouver – allo stringere tra le dita ciottoli vibranti di calore. E poi i tramonti, che sogno erano i tramonti, del rosso più splendido che abbia mai visto, della malinconia più tenera che abbia mai provato…

E dopo un addio glorioso al sole nel mare ed al mare nel sole il ritorno all’aeroporto, all’aereo dai posti per pigmei ma occupati da giganti. Solo cinque ore lassù in cielo e in un baleno il ritorno all’assenza: di calore, colori, sapori, gioia di vivere.  Pioveva, a Vancouver, come era piovuto nei sette giorni in cui non c’ero stata. Ma una volta è uscito il sole, si sono subito precipitati ad informarmi speranzosi i miei. Sì, una volta, dieci ore di sole in ventotto giorni, non ci si può mica lamentare! E poi la pioggia serve. Pensa alle piante, alla terra come ne ha bisogno. Ne ha proprio bisogno questa terra che sta rotolando nelle slavine? Ne ha bisogno la siepe del vicino che dopo vent’anni è crollata distrutta dalla pioggia? Ne hai bisogno tu tuya davanti alla mia finestra, imperterrita nel tuo verde grigiore? Per saperne di più mi sono messa a meditare, per cadere in trance ed ascoltare le voci del giardino.

‘Ma chi è stato quel maledetto che mi ha fatto emigrare? Stavo tanto bene in Abruzzo’ si lamentava il fico ‘perché mi avete calato in miniera? Ma che peccato ho fatto?’

‘Strapunita sia quella rammollita che piangendo mi ha strappato dal grembo di mia madre’ gemeva il gelso bianco iraniano, ‘nemmeno un frutto darò quest’anno, se pure c’arriverò a vivere fino a giugno, perché queste frustrate mi stanno riducendo a carta straccia’.

‘O Dio santo creatore, mi hai promesso mare e cielo e da qui non vedo né mare e tantomeno cielo, in miniera mi hai mandato…’ blaterava la magnolia della prima comunione.

‘Al posto dei fiori avremo grappoli di pioggia’ s’intrufolavano all’unisono il glicine e il lillà.

E il melo? E il prugno? Si lamentavano a monosillabi, non avevano nemmeno la forza di parlare, impegnati com’erano ad affondare le radici sempre più giù per evitare che i torrenti di acqua li sradicassero e conducessero al porto. L’unica nel silenzio era la mia immensa tuya, orgogliosa di quei ramoni a ventaglio, chiusa nella tortura del dileggio, consanguinea dei cipressi alti e spessi. Dov’era andata con la marea di sorelle e fratelli quando qui ci fu il diluvio universale? Riuscì a salvarsi? Apparentemente no, se si crede alla leggenda.

Racconta la mitologia locale che prima che cominciasse il diluvio universale (per quaranta giorni? no, quattromila forse in questa parte del mondo) lo sciamano degli indiani che vivono nelle Haida Guaii raccolse intorno a sé la sua tribù, preannunciò una discesa di acqua sterminata e con una pozione magica rimpicciolì gli abitanti delle isole così da farli entrare in una bella vongolona bianca. Il diluvio venne e distrusse tee pee e focolari, foreste e alberi, rocce e spiagge. Nulla rimase della terra, solo acqua. E finalmente un giorno la rabbia degli dei si placò (ma perché ce l’hanno con noi? non possono vedersela tra di loro?) e il sole tornò dall’esilio. La terra era deserta, non un solo essere vivente, ma nel cielo un corvo curioso e annoiato. Che vede proprio lì su quella punta protesa verso l’Alaska dove il mare dell’interno incontra quello furioso dell’esterno… una conchiglia bianca che pigramente si stiracchia al sole. Chi sarà, che cosa farà, dove andrà, che conterrà, non mancavano certo gli interrogativi al corvo ficcanaso che quatto e silenzioso e poi saltando e gracchiando si avvicina con circospezione all’oggetto duro a riposo. E spingi che ti spingi, prova e riprova, spingila di qua e tirala di là, un colpo di becco ed un altro di ala, ecco che la conchiglia finalmente si apre e i minuscoli Haida, al contatto con l’aria, riprendono le dimensioni umane. E la vita ricomincia. Grazie allo sciamano ed al corvo. Quella vita stessa che era stata distrutta dalla pioggia.

Le leggende non sbagliano. Se già una volta l’acqua ha spazzato tutto non può succedere ancora?

Ieri c’è stato uno sprazzo di sole: la gioia degli uccellini! Ne ho visti a decine piroettare sul melo, salutarsi, abbracciarsi, farsi gli inchini, le moine, canterellare, sgambettare… chissà poveri piccoli dove si riparano quando questa vecchia megera bagnata sferza i suoi artigli senza pietà! Chissà dove sono ora i miei angeli uccellini, ora che i calderoni di nero antracite stanno bombardando dal cielo!

Devo comprarmi una canoa per spostarmi da una strada all’altra mi confida una vecchia conoscenza, io invece, so che quanto prima mi farò crescere le pinne ai piedi, le squame sul dorso e a trasmutazione avvenuta vivrò in pace e per sempre nella laguna di Vancouver!

Riflessioni dell’anima

“In times dominated by technology, Mena Martini’s art springs from her sensitiveness, from the way she looks at the world and from her hands, as a primary need to confer a golden depth to the appearance of things.

The artist is captivated by a passion for the fullness of emotions that are aroused by colours in an intimate primordial explosion; her work is born in a bold and impetuous genesis. She follows each sense, pursues each beat of a thought, every possible path from the soul to the surface, creating colour, painting.

The work becomes a sort of visual non-place, accented by notable brushstrokes, where hues penetrate each other in varied harmonic tones, among composite rigours and emotional tides.

The artist becomes the first to observe the development, the revelation of a work that at its origin is but an idea.

Thus, magically, a show is put on by thin evanescences, the flowering of shadows, of semblances, of nebulae, of feeble presences, of shapes floating in a supreme equilibrium of disclosures and concealments, unexpected darkenings and revelations.

It can be said that this artist’s work is not cerebral: no pain, anxiety or existential suffering pushes her through her mysterious creational journey. Instead, one sees the glow of spiritual exercise inherent in the execution of the painting.

Indeed, the attractiveness of the paintings does not end with the seductive impact of light on their surface; an inner light reverberates from the works, provoking an instinctive and ineffable impression.

Likely inspired by the marvelous Canadian landscape that surrounds her, and as a result of her attention toward abstract expressionism, Mena Martini pierces an extremely personal vision of nature that becomes a reflection of her soul.” Renato Bianchini, Art Critic, Pescara, Italy

“With weightless brushstrokes and floating colour, Mena Martini paints gauzy landscapes — half-forgotten empires, imagined horizons, invisible cities.  They contain a light that suggests something unmistakable, rare, perhaps magnificent. Her cities are home for our projected desires, our imagined futures, our morning-after dreams, and our hazy memories of moments that could not be fixed in language, but only glimpsed, hinted at.

Her work always already embodies something that is lost, and the possibility of something that might soon be found.” Katherine Somody, ArtBomb Curator, Vancouver, Canada

“Mena’s paintings create a spiritual doorway, they depict a deepening state of meditation. Mena uses her palette as a veil reminding us that some sacred mysteries are not meant to be understood.

Her colours and their vaporous quality convey the emotion involved in these changing states (…) impart a fascination with the liminal. (These are very short stages amidst time of change when day becomes night, summer becomes autumn, a sound calms and becomes silence). In the original Latin Lumina means threshold and Mena’s work as an artist focuses at maintaining the viewer in the space of the threshold, suspending time and freezing the moment at which transformation is about to take space. Therefore Mena’s paintings give us the opportunity to rest and reflect before these stages occur, for once something has emerged from the threshold it is not the same as before.” Angela Clark, Curator at il Museo, Il Centro, Vancouver, Canada