Come passi il tempo a Calgary?

Oh Canada, my adoptive land.

I miei starnuti non amano la solitudine

Che fai a Calgary? Come passi il tempo lì? Le domande degli amici, ripetute e identiche, quotidiane e insistenti, mi hanno talmente assillata durante il rientro a Vancouver per le vacanze natalizie che più di una volta ho sentito il bisogno di sviare il discorso. Tutto inutile: loro, imperterriti e testardi come questa voglia di mangiare che non mi lascia requie, e per niente scoraggiati dai miei sospiri da meditazione d’alto bordo, si sono dati il turno a mo’ di strumenti musicali:

“Dai, tornatene qui, che fai in quella città di cowboys e petrolieri?”

“Tuo marito avrà molto da fare col lavoro, a Calgary starai sempre sola, almeno qui hai tanti amici.”

“Forza torna, che vuoi che succeda? Luciano può rientrare ogni fine settimana, l’ha già fatto in passato, e tu intanto sei nella tua casa e non ti metti sotto ghiaccio per tutti questi mesi invernali”.

Che buffo però, tutti ad offrirmi la stessa medicina nella medesima scatola sigillata, un po’ di variazione sul tono, ma nessuna novità. Eppure lo sanno bene che in questo momento non penso proprio di tornare a Vancouver. Non l’ho nemmeno presa in considerazione per un attimo quest’eventualità. Sola nella mia casa a due piani e col giardino immenso da curare? Sola sotto la pioggia tramortente invernale, autunnale, estiva primaverile ed anche di tutte le stagioni che non sono ancora state catalogate? Mai e poi mai! Nemmeno in compagnia di un esercito di mariti! O di amanti, che preferir si voglia. Anzi, il mio principio di autoaffermazione è ‘appena mi si presenta l’occasione fuggo da Vancouver’!

Calgary è venuta fuori a marzo, un lavoro interessante per Luciano e per me la possibilità di espatrio e ora, me la sta godendo proprio come un’amarena dolcissima e soda su un gelato alla panna questa Calgary denigrata e disprezzata! Pur tuttavia, ci sono gli amici rimasti sul Pacifico e i loro dubbi, le allusioni e insinuazioni che forse è tutta una clamorosa balla questo mio trovare la città degli stivaloni e dei lanciatori di lazo una gradevole sorpresa. “Un libro di fiabe inedito? Così ti sembrano quegli stradoni affogati sotto due metri di neve? Ma Luisa stai bene? Non è che ci stai inventando una mastodontica panzana? Sai, come la volpe che non può arrivare all’uva…”

Ecco qui, ho appena finito di parlare con Adriano. Dieci minuti per fargli capire che i fiocchi di neve qui mi fanno pensare ai chicchi di gelsi maturi, quelli bianchi e grondanti di succo dolcissimo che raccoglievamo dagli alberi nel paese natio a sud dello stivale. Ho potuto immaginare dal silenzio la sua reazione, e gli ho visto il doppio mento scendere incredulo fino al cuore per lo sgomento. Ha riattaccato nient’affatto convinto ed ora il telefono squilla ancora.

“Luisa, ma sei ancora lì?”

“Silvana… e perché ti preoccupi così tanto?”

“Ho sentito in televisione che la temperatura è scesa a meno venti da voi!”

“E allora?”

“Ma come fai a sopravvivere? Tu mica ci sei abituata. Hai sempre freddo!”

“Sì, però qui mi pare un freddo diverso… come ti devo dire? non è umido, non ti bagna le ossa e il midollo e gli organi volontari e involontari come quello di Vancouver. Per esempio in casa, non ho nemmeno bisogno di accendere sempre i termosifoni…”

“E beh, per forza, sei in un appartamento. Però finora non avete mai avuto meno venti. E che fai, pensi di uscire anche oggi?”

“Non penso. Mi sento un po’ di febbre addosso”

“E ci credo! Venti gradi di escursione termica in una notte! Riguardati, che poi sai quanto tempo ci vuole per riprendersi!”

Meno venti, dicono le previsioni, meno venticinque con il vento, commenta il radiocronista, ma la voglia di provare supera ogni moderazione. Mi sento come una bambinella curiosa. ‘Chissà che sentirò a questa temperatura, chissà come si respira lì fuori e come entra il freddo nel corpo!’ Per non trastullarmi nei chissà l’intero pomeriggio, esco. Un’atmosfera rarefatta che sembra fatta di ghiacciolini sospesi nel vuoto, pulviscoli di cristallo che come schegge appuntite vanno dritte al cuore. Una magia da mozzare il respiro, con nessuno nel parco, perfino le ombre delle betulle ritrose nell’adagiarsi sul ghiaccio immacolato, il sortilegio di un mondo nevoso… l’incanto, o forse un gelo tagliente come un veleno che reggo solo per qualche minuto. Torno a casa senza fiato, senza forza, senza energia di vita e mi rifugio a letto, dove piombo in un sonno profondo da cui mi risveglia la voce di Luciano nel buio della sera:

“Ma che fai a letto? Non ti senti bene?”

“Non so, mi sento floscia come un cuscino rotto, come se m’avessero bucata e dentro non c’è rimasto più niente. E mi fa male la gola.”

“Non sei mica uscita oggi…”. Con quel briciolo di volontà che m’è rimasta giro la testa verso il muro, mi viene fuori un sì che non ha la forza di affermarsi e Luciano per fortuna non sente, rimane nel dubbio. Devo essere in una specie di semi coma perché lui non solo mi cerca il termometro, ma me lo sistema sotto l’ascella. I minuti scorrono lenti come un fiume senza acqua… e infine eccolo il responso del mercurio: trentotto. Trentotto? Un febbrone per un’assuefatta ai trentasei quotidiani.

Dovevo immaginarlo. Altro che bambinella curiosa. Sono una scriteriata, una senza senno, una pazzoide sotto mentite spoglie salomoniche. Però, perché ora mi flagello? Non dice Siegel, quello psicologo ultra famoso americano, che dobbiamo essere i migliori amici di noi stessi, e che in ogni occasione, piacevole o stressante che sia – ma immagino solo stressante… infatti, quando si è nel piacere chi avrebbe interesse a soffermarsi e chiedersi come goderselo? – allora, non dice lui, apprezzatissimo, ammiratissimo scrittore, oratore e innovatore, che in siffatta situazione dobbiamo mantenerci COAL? (Che poi mi ricorda il carbone e quindi lo spazzacamino nero nero, ma mi fa anche pensare a cool, corrispondente in inglese del nostro strafigatissimo figo). COAL, acronimo di curiosity, openness, acceptance and love. Con queste immagini rincuoranti invio un timido cenno d’intesa alla impavida rivoluzionaria e ripiombo in un sonno tormentato. Da cui mi sveglio intirizzita di sudore e con la febbre a 39. Luciano è terrorizzato. Come sempre quando qualcuno si ammala e lui non riesce a risolvere l’equazione con la squadra e i logaritmi, cade in una depressione silenziosa e profonda. Non mangia, non sorride, non legge, non si concentra. È preoccupatissimo, ed ogni mezz’ora viene in camera in punta di piedi.

a – “Hai bisogno di niente?”

Sì, di un massaggio apocalittico, ma leggero come una piuma.

b – “Vuoi mangiare qualcosa?”

“Sì, una sogliola minuscola pescata stamattina. Ma che sia tenera, mi raccomando, non quegli oggetti non identificati che nei nostri primi anni in Canadà andavamo a pescare con Tarcisio. Il nostro caro coetaneo Tarcisio che, appena emigrato anche lui, andava a procurarsi la pancetta nel miglior negozio italiano nella speranza di accalappiare sogliole ghiottone e innocenti. Soltanto poche volte, nelle 88 escursioni sulle rocce allora incontaminate del Pacifico, riuscì a pescare qualche muto esemplare. Che fossero sogliole ci credeva soltanto lui, per noi ed un’altra coppia di amici, compagni nel duolo freddo e piovoso dell’attesa cui ci si sottoponeva per non abbandonare Tarcisio alla solitudine, si trattava di oggetti natanti non identificati, duri e satanici come le suole di scarponi montanari, o gelatinosi e stomachevoli, ombre di meduse ammalate. Non darmi le sogliole canadesi Luciano, quelle cose color ocra che quando mi azzardo a comprare avvicino prima al naso, perché meglio è che il puzzo mi tramortisca dal pescivendolo, piuttosto che dopo, nella mia cucina rosa e immacolata. Sai che voglio? Le sogliole che mio padre portava quand’ero bambina, che saltellavano ancora tra le mani di mia madre. No, non voglio nemmeno quelle, giacché ora mi farebbe senso vederle sgambettare e poi tramortite in padella. No, non voglio niente. Non insistere, non mi proporre nulla.”

“C’è qualcosa che posso fare per te?”

No, grazie Luciano.

Grazie no.

Non ora.

Le tre risposte vere, perché le altre le lascio al loro sventolio nella mente, questa mente che pur in un corpo ammalato, si sposta con la velocità di sempre.

Non dormo, ma mi sveglio e mi par di riaddormentarmi perché mi risveglio. Per fortuna mi sveglio e continuo con le veglie, notturne e diurne, interrotte solo da frammenti di sogni violenti.

La malattia ed il recupero sono lentissimi, non riesco nemmeno a parlare al telefono. Nella speranza di dare una spinta al sistema immunitario mi affanno a prendere di tutto, purché antroposofico, omeopatico o almeno naturopatico. Il sesto giorno mi sembra di averla spuntata e per festeggiare voglio accontentare questo bisogno sfrenato di muovermi, andar fuori, sentire. Esco all’aria aperta. Una scintilla di saggezza mi catapulta come una scheggia a casa. Dove mi accascio davanti al computer, con solo la forza di comunicare ad uno schermo. Inserisco gli indirizzi degli amici più cari ed inizio a scrivere:

Che fai a Calgary? Come passi il tempo lì? Molti di voi mi hanno chiesto mentre ero a Vancouver a Natale. Beh, se la domanda mi fosse rivolta oggi, risponderei: metà della giornata a vestirmi e metà a spogliarmi. E non lavoro per un albergo a luci rosse!

Sono stata ammalata per cinque giorni come un gatto (non ho visto né cani e né gatti ammalati, quindi per me fa lo stesso), ho tossito, ancora, come un gatto, di notte, di giorno, all’alba e al tramonto, ho ingurgitato più aglio di una strega che vuol stordire nemici e concorrenti, inghiottito 83 pillole di vitamina C, spremute di 24 limoni, 17 gocce grumose e carbonizzate di una propoli nera, vischiosa e incallita, ho dormito come me (e cioè pochissimo) e oggi ho deciso di uscire.

– 30 diceva il termometro e con il vento – 39! Ma un sole splendido e il cielo azzurro. Il sole ‘uno è’ mi sono detta, non è che quello di qua viene da un altro mondo e invece di scaldarti ti mummifica. Previdente come una madre ormai in pensione ho indossato: maglietta intima di lana a maniche lunghe, maglione di lana con collo alto, cachemire a girocollo, cardigan di superlana, gilet di fibra sintetica, giacca della stessa fibra, pellicciona di orso canadese, sciarpa di seta stretta intorno al dolcevita, sciarpa di cachemire al di sopra, bandana di materiale antivento e antitutto, cappello di lana, guanti di cachemire, guantoni di goretex. Dalla vita in giù? Mutande, mutandoni, pantaloni e per finire tuta superimbottita da sci alpino. Tre paia di calzettoni di lana e stivaloni da neve a meno quaranta. Dopo di che, impirata come un’astronauta, mi sono accorta che mi mancava un fazzoletto per il naso. E allora, togliti i camminamontagna, la pellicciona, i guantoni da box e ritorna in camera, prendi il fazzoletto, rimettiti gli attraversaghiaccio pesanti e ingombranti come due cannoni, perdi l’equilibrio, appoggiati alla libreria, fai cadere (lungi dalla tua volontà!) la tazza piena solo di (meno male!!!!) acqua, solo acqua, rimettiti i boxeriani, apri la porta con la sensazione-certezza di essere diventata l’armadio della camera da letto che se ne va a far prendere una boccata d’aria a tutti gli abiti, fai un passo chiedendoti, con la fronte aggrottata, se il tuo corpo riuscirà a portare a spasso un peso simile, sì, ci riesce, a fatica ma ci riesce, fai la prima rampa di scale e sei tutta sudata, ti togli i cappelli, i guanti, apri la pelliccia, arrivi giù, stai ansimando, i calzettoni spessi due centimetri che ti arrivano al ginocchio vorresti strapparteli di dosso, ti viene una caldana di quelle che non hai mai avuto durante la menopausa, ti fai forza, ti riabbottoni, ti ringuanti, ti rinsciarpi, ti rincappelli, apri il portone e “mamma mia fa veramente freddo!”

Ho camminato per sette metri, mi sono girata con tutto l’armamentario monumentale addosso, sono tornata indietro. Ho riaperto il portone, mi sono discappellata, disciarpata, dispellicciata, sono arrivata al secondo piano che per poco non mi prendeva un collasso. Gli interni qui hanno una temperatura media di 27 gradi, io, con tutto quello che avevo ancora addosso, raggiungevo i 90 gradi. Una volta su, dopo la fatica immane di sfilarmi le zampe d’elefante dai piedi, e la furia di liberarmi di calzoni, calzettoni, tute e maglioni, mi sono accasciata sul divano esausta.

Ho ripetuto l’esperimento all’una del pomeriggio. Ho camminato per duecento metri. Adesso ho bisogno di: un chiropratico che mi raddrizzi la colonna, un fisioterapista che mi rimetta in movimento le gambe, un podiatra che mi riformi i piedi, un massaggiatore che mi ridia i muscoli e poi di 27 gradi veri veri veri! E fuori e non dentro. Anzi, 30 sono ancora meglio.

E CHE NON MI SI CHIEDA PIÙ COME PASSO IL TEMPO A CALGARY!

Premo invio. Il messaggio scompare. Compare su schermi lontani, anche su quello di Laura che è in India e che mi risponde subito ringraziandomi della ventata di buonumore che le ho portato. In India, nel saporoso caldo di gennaio. Beata lei. Ah, se solo riuscissi a sentire il benessere di una bella spiaggia dell’Adriatico in un ferragosto assolato!

Tutti al mare!

Vai a capire perché, ogni qualvolta ritorno su questa spiaggia dell’Adriatico, il ritornello degli anni sessanta ‘tutti al maaare, tutti al maaare, a mostrar le chiappe chiaare!’ comincia a titillarmi le orecchie fino a risuonarmi nella testa e poco ci manca che mi scopra a sgambettarlo ai quattro venti. Anche se di venti a dir la verità oggi non si nota nemmeno l’ombra. E per fortuna che Eolo e la sua corte se ne sono andati in giro per l’oltretomba. Ci hanno così sbatacchiati negli ultimi tre giorni con una tramontana da bora di sabbia, che quasi quasi facevo le valigie e me ne tornavo a destinazione dopo nemmeno una settimana di vacanze. Oltre al rumore, bvu, bvu, bvu, persistente come i tarli nel comò di mia zia, di inizio novecento – grossi quanto un dito, mamma santa che ludibrio – era la sabbia negli occhi a tormentarmi, i granelli duri come marmo sotto la lingua, tra i denti, perfino intorno alla capsula che il dottor Bird mi ha appena cementato.

Anche i vicini d’ombrellone non è che se la siano spassata. Catafalco, che se ne sta immobile stoccafissato al sole dall’alba al tramonto, sembrava preda di una tarantola. Si alzava dalla sdraio per scrollarsi di dosso una patina di granellini ispidi e virulenti, si ricollocava e subito una folata di vento, vrrrumm, lo imbalsamava da cima a fondo. Alla fine se ne è scappato imprecando contro il bagnino.

Ieri il mio giornale è stato ridotto a brandelli e Strapontina, l’inquilina dell’ombrellone di davanti, quella che si siede sempre sull’orlo della sedia per far posto ai cinque figli in età prescolare, nell’aprire il portamonete per accontentare con una caramella al latte una delle bocche filiali in perenne posizione questuante, si è vista biglietti da 10 e 50 euro schizzare dalle dita come uccelli in libertà. “Vento ladro! Ladro come questo c… di governo ladro!” ha urlato il marito correndo con la pancia a saltelloni dietro alla refurtiva che, come nelle migliori vignette, si riposava conciliante solo quando nessuna mano era in vista. Credo che il signor ‘il lettino è mio e guai a chi me lo tocca’ (e mai permette ai figli di rubarglielo o allungarglisi accanto) se ne sia fatto di chilometri dietro ai biglietti rosa della moglie. È tornato in preda al collasso, con 30 euro tra le mani, il biglietto rosso da cinquanta rubatogli dal vento. O forse da quelli che hanno votato il governo ladro.

Si sono messi a discutere penosamente marito e moglie ed io mi sono vestita in fretta e mi sono allontanata. I litigi mi mettono sempre l’angoscia. Credo di aver lasciato un mezzo chilo di sabbia nella vasca da bagno di casa… e stamane ce n’era ancora tra le pieghe del cuscino. Invece oggi, che giorno stupendo ci regala madre natura!

Siamo scesi in spiaggia alle sette, taumaturgicamente presto per le mie abitudini, ma Luciano, che è arrivato stanotte, smaniava dall’andare a fare due passi nel silenzio mattutino. Che splendore il luccichio del sole su una superficie marina quasi immobile, che aria dolcissima! Camminiamo paghi della pienezza del momento e ad un tratto il mio lui sussurra: “Lo sai che sei veramente la più bella della spiaggia?” Ed io, sorridendogli, come una monachella al primo amore, gli lancio occhioni di riconoscenza e… e mi accorgo che anche lui sorride, in quella maniera sorniona di ragazzino che l’ha combinata grossa ma se anche che tu non lo punirai. Un lumicino di Natale mi si accende nel cervello, mi guardo intorno impanichita e realizzo che per tutta la lunghezza della spiaggia – un chilometro e quattrocento metri da roccia a roccia – e per tutta la sua larghezza – i caseggiati del lido, più diciotto file di ombrelloni, più lo spazio per il bagnino e la pista da ballo, più il bagnasciuga, più la distesa di mare azzurro-verde come gli occhi di mio padre – non c’è un solo essere umano. Nessuno, nemmeno i vecchietti con le insabbiature, nemmeno i netturbini comunali che pur qualche volta, per sbaglio, finiscono quaggiù. Su questa distesa vergine da umanità, ci siamo ora solo noi due e i gabbiani.

“Sì,” continua il mio disadorabile Luciano, come se non avessi capito, e per niente fulminato dal mio sguardo arsenicoso “non c’è nessun’altra donna sulla spiaggia e quindi tu sei sicuramente la più bella.” Della spiaggia. Del reame. Altroché. Vorrei essere la matrigna di Biancaneve per ritrovarmi tra le unghie da mezzo metro di smalto viola un veleno istantaneo. Ma poi la grinta bellicosa mi passa, l’aria è dolce come un torrone al gianduia, un casto marron glacé torinese. Vado a nuotare perché il mio corpo nell’acqua si annulla e l’azzurro intorno uno spiraglio di paradiso. Le braccia si muovono lente per sentire il respiro della natura: riverberi sull’acqua, bagliori di immensità.

Dovrei venire più spesso così presto al mare, è un godimento assoluto, e perfino il caffè che Luciano mi dà da sorseggiare ora che anche il bagnino ha abbandonato il suo letto nel capanno ed è dietro il bancone del bar ad armeggiare con un grande latte al vapore, si ferma sotto la lingua con sapore amico. Ecco che dovrei fare: bermi un caffettone ogni mattino, invece di ingurgitare acqua calda o al massimo spennellata da un leggero sapore di menta.

I primi clienti arrivano dinoccolandosi sugli infradito o in bilico sugli zoccoli di legno, e le briciole di cornetti si addensano come puntine di caldo sui tavoli di plastica immacolati. Un insonnolito dal ventre prominente afferra due bomboloni grondanti di crema e se li spappa prima che io abbia la faccia tosta di sollevare gli occhi dal giornale (che fingo di leggere) e rimproverarlo a cielo aperto. Però, santo cielo, con una pancia così. E allora, io non me lo sbaferei un bombolone? Non lo faccio solo perché poi me lo ritroverei tutta l’estate penzoloni dalle cosce. Lui se ne infischia, a me non resta che il sacrosanto dovere di ignorarlo. E ignorarlo subito devo perché Luciano è entrato in una di quelle discussioni politiche a mosca cieca con gli amici che come ciliegie mature arrivano man mano dai letti caldi della notte.

Basta coi vagiti di protesta, non rovinate la bellezza dell’ora.

Ci scambiamo articoli di giornali contrari e poi ci rifugiamo sotto i rispettivi ombrelloni, riservandoci di parlarne a ragion veduta. Giochi da mare, più stimolanti delle parole crociate. O almeno così ne siamo convinti noi e i nostri amici intellettualoidi.

Com’è tutta piena la spiaggia! In poco più di due ore bambini secchielli mamme salvagenti merendine padri sigarette cellulari nonne cappelli ombrelli fazzoletti per il naso vu cumprà e mercati delle pulci ambulanti hanno invaso quest’angolo di mondo da più bella del reame. Ora sì che ne avrei di contendenti! I seni della vicina costazzurrina sono due pallottole provocanti e Catafalco ha assunto la posizione seduta e statuaria da santi delle grotte che seguono con occhi segaligni i fedeli col ‘di dentro’ infedele.

Qui di ‘dentro’ non c’è rimasto più niente, ci sono invece tanti bei ‘di fuori’. Con i costumi da bagno sempre più ridotti a lacci da scarpe, siam tutti al maaare tutti al maaare, a mostrare le chiappe chiaaaare! Anzi abbronzatissime, passate alla tintura machiavellica, nemmeno un filino di pallido traspare. Qui siamo tutti visi tonificati, muscoli galoppanti, seni tenori e costumi spalancati alla felicità. Anche il sole si spaparanza talmente tanto da diventare invadente, persistente, insopportabile. Corro nell’acqua come fossi una maresuga e non sono nemmeno tanto al largo quando la vedo. Prendo il volo senza pinne né fucili e né occhiali, me la squaglio a tutta velocità verso la riva, ma lei è più veloce agguerrita tenace e mi colpisce al braccio. Avanzo senza respirare, ho un barlume d’ironia per rendermi conto che sto battendo il mio record personale di velocità acquifera. Adesso mi viene un infarto, oppure i polmoni mi scoppiano, o… mi lascio mordere bruciare sotterrare. È a venti centimetri da me. La seconda sferzata è sul dorso della mano.

“Ci sono meduse!” grido quando avvisto i primi bagnati che sentono una voce e vedono una palla umana sfrecciare alla Paperino verso la sabbia. La mano è gonfia da bombolone senza crema, il braccio è pieno di bollicine rosse e brucianti. Il bastoncino all’ammoniaca del bagnino è arido come una vagina secca, il mio l’ho lasciato in Canadà. I cubetti di ghiaccio che scivolano dalle mani placano momentaneamente la pelle inferocita, ma il gonfiore si alimenta da solo e il bruciore divora. Quante altre volte le meduse mi hanno sferzata? Da sette giorni di pena a poche ore di fastidio, ormai la storia la conosco a memoria. Le malaaguas le chiamano in spagnolo e già il nome descrive l’impatto.

“La pipì” mi sussurra nell’orecchio Luciano, “vai a fare la pipì e metticela sopra.”

“E dove la faccio la pipì, nella mano?”

“Ma su, dai, in una conchiglia, oppure ci facciamo prestare un secchiello.” In una conchiglia! Come se fossimo sul Pacifico, dove le vongole sono grandi quanto una mammella! Qui dopo cinque chilometri a piedi e con gli occhi incollati alla sabbia, si è fortunati se si trova una conchiglia intera di tre centimetri! E il secchiello… che idea balzana, poi, anche se lo lavassi con la varechina mi rimarrebbe sempre il dubbio di averci dimenticato una goccia di pipì, no, no. E intanto come faccio? Mi guardo intorno da Sherlock Holmes alla ricerca di indizi e… trovato! Un bicchiere di plastica del bar… verso cui corro come Robinson Crosue alla vista di una nave. Bicchiere alla mano il cesso è occupato e straoccupato; il veleno meduseo se la fa con euforia e l’avambraccio si prepara a sfidare a dimensione la coscia appesantita. Se il cacone non esce dal cesso giuro che mi calo giù questo pezzo di mutanda e la faccio qui la pipì, fuori dal cesso, giuro, giuro! Non esce. Ma la pipì sì, e sento con le caldane che dalla testa rimbalzano ai piedi scottanti di sabbia le prime gocce che fuoriescono dallo slip. Strafottenti come l’acqua che scappa dalla fontana di farina pronta per essere ammassata a pane; gagliarde, senza vergogna. Ho voglia di piangere. E piango, un’altra pipì fatta di goccioline leggere, legale solo perché esce dagli occhi. Piango perché ora mi sento l’epicentro di tutti i mali del mondo, e vedo Luciano arrivare.

“Ma non sei ancora entrata?”

“No.”

“Sei sicura che ci sia qualcuno dentro?”

“E allora perché la porta dovrebbe essere chiusa?”

“Busso?”

“No.”

“Perché?”

“Perché se fossi io lì dentro mi darebbe così fastidio sentir bussare.”

“Ma non possiamo stare qui ad arrostirci al sole.”

“Torna all’ombrellone, non preoccuparti.”

Se ne va, lui non sopporta il sole.

Il braccio è infuocato, la mia testa pure. Sto per cedere, quando la porta del paradiso si apre e una cosina striminzita con tutti i capelli impiastricciati di gel scompare dal mio campo visuale prima che abbia il tempo di metterla a fuoco. La toilette, ma che esotismo chiamare toilette questo buco senza luce dove a malapena s’intravedono water e lavandini scrostati. L’aria è fatta di pipì. Puzzano sempre di pipì le toilette italiane. All’alba, al tramonto. Forse puzzavano di pipì questi water già appena usciti dalla fabbrica. La mia pipì esce calda di rabbia e si adagia nel polistirolo, ne sento il gorgoglio gentile, il tepore sotto la mano. E ora? Una bella stropicciata a base di ammoniaca naturale e di vitamine B, A, C e D che prendo ogni mattina (e che a detta di un’amica vanno a finire tutte nella pipì) e sarò a posto. Illusione pia. Anche il solo versare alcune gocce sulle piaghe fa venire i brividi. Pare ci sia un pallone aerostatico sotto la pelle della mano. È diventata una cosa sconcia. Mi fa senso perfino guardarla. Aspetto due minuti e poi sciacquo con acqua fredda. Non voglio portarmi addosso questo puzzo di pipì, ma ormai ce l’ho dentro. Di tornare in acqua nemmeno l’ombra. Mi sento uno schifo. Miserable, direbbero in inglese. No, non miserabile, ma m’-ser’bol, totalmente m’-ser’bol. Ed a me rende l’idea più dei depressi e avviliti del vocabolario italiano…

Mi allungo sulla sdraio sotto l’ombrellone. Provo a rilassarmi, ma i telefonini di tutti i vicini si sono messi ad abbaiare come lupi mannari, uno dopo l’altro, all’unisono, di capo, di testa, di coda. Proprio come quando prendo il pullman in questo adorabile paese natio e non riesco ormai più ad isolarmi, nemmeno con i tappi di cera ultimo ritrovato, perché i telefonini si alternano, si sovrappongono, si eliminano, si acquietano, risorgono, convergono. Adulti rissosi, bambini viziati, adolescenti turbolenti, vecchi attaccabrighe, neonati biliosi, ecco cosa sono i cellulari, un concentrato di follia umana.

“Sì, stiamo per arrivare. Sì, sì ci vediamo tra poco.”

“Allora mi viene a prendere anche papà? Mancano quindici minuti.”

“Stiamo all’uscita dell’autostrada. Sì ci vediamo tra poco.”

“Ciao Marilù, no solo un poco di ritardo. Ci vediamo tra poco.”

“Siamo appena usciti dall’autostrada, ci vediamo tra pochi minuti.”

CI VEDIAMO TRA POCO. TRA POCHI MINUTI.

Vorrei che un megafono lo urlasse ai trentottomila venti, così almeno tutti, tutti i 65 passeggeri non ricevano telefonate insulse dalla musichetta atroce.

Mi fanno scoppiare, se almeno ci fosse un minimo di conversazione. E ora anche in spiaggia non smettono. Catafalco si cerca il telefonino infilando di scatto la mano tra i peli del petto glabro mentre la moglie tira con furia tutti gli indumenti dal borsone e i cappelli che lei ha religiosamente portato e nessun figlio ha indossato e le merendine e l’acqua ormai calda come la pipì e il telefonino che urla sempre più forte: ma che fai rincitrullito? E rispondi! RISPONDI!!! Minaccioso, al centro della vita il fighissimo cellulare. Drrin, sciallù sciallù, tatararà, squeeelom squeelom, piripirpòripò, piripiripòripò, PIRIPIRIPORIPÒ.

Rispondete o divento isterica. Rispondete, vi supplico, sono in ginocchio. Al limite. Dall’altoparlante dello stabile uai emme si ei si urla ai quattro venti. UAI EMME SI EI. UAAAI EM SI EEEI! E le ragazzine si scatenano sulla pedana a ritmo frenetico mentre l’istruttrice si dimena in preda al parossismo. È molto carina però e Luciano non smette un attimo di far finta di non sbirciarla. La mia pazienza sta bollendo a tremila gradi, mi alzo e nella furia faccio cadere il lettino, il costume s’inzuppa di sabbia, il sole s’imbestialisce, mai un caldo così, sono tredici anni che non venivo a ferragosto. I corpi ammassati sono da mercato del pesce di Chioggia: sogliole di tutte le tonalità, triglie arrossate, cefali impomatati, gamberi sfornati, pannocchie recidive, sarde spellate, saraghi allucinanti, scampi sfuggiti alle grinfie materne che urlano i cento decibel, radio personali a tutto volume per eliminare lo scarto da altoparlante UAI EMME SI EI.

L’uscita dallo stabilimento balneare. L’entrata in macchina. Mi sento un arrosto sanguinolento messo a lievitare in forno. Fino a quando Luciano non accende il motore non c’è verso di abbassare i finestrini. E senza aria condizionata e nel silenzio totale, consumiamo così le nostre vacanze su una favolosa spiaggia dell’Adriatico. Sporca, ma pur sempre favolosa. Con le cicche di sigarette più numerose dei chicchi di sabbia, ma pur sempre favolosa. Con sette esseri umani a metro quadrato, ma pur sempre favolosa. Con il mare impiastricciato di alghe e brulicante di meduse, ma pur sempre favolosa. Con le urla dei pargoli viziati, gli strozzii dei cellulari, i succhioni mozzafiato delle coppie avvinghiate come iene in calore (ma santa terra, proprio sotto gli occhi di tutti dovete scoparvi?), ma pur sempre, pur sempre cosa?

E si rivela un mito roco, marcio e imbastardito questo belpaese che di bello ha soltanto i ricordi.

E se rimango senza ciglia?

Durante il mio triennio messicano se per caso aprivo uno dei cassetti (ne avevo sessanta… da metterci un calzino per ognuno? mi chiesi la prima volta che mi trovai a fronteggiarli, ma la casa apparteneva a una di quelle famiglie locali che, pur costituendo il 2% della popolazione, avevano ed hanno in mano il 90% del reddito pubblico, ma questo è tutto un altro discorso, torniamo ai tiretti) della sezione invernale e scoprivo, mogie ed appiattite, maglie che per scaramanzia o per sbaglio mi ero portata dietro dal Canadà, mi soffermavo ad osservare con altezzosità e compunzione quelle poverelle che, strette ed appassite, si chiedevano il perché della loro esistenza. Ah, gongolavo, ben vi sta! e chi pensavate di essere, le tuttofare, le indispensabili alla sopravvivenza, le essenziali? E no, qui inutili e superflue siete! e rimarrete! E con saccenteria chiudevo il cassetto, come a seppellire per sempre avanzi di un passato inglorioso.

Poi a Vancouver tornai e quelle già in valigia cominciarono a scalpitare, gonfiandola come un otre ed appena a destinazione saltarono fuori con energia inaudita e mi s’incollarono addosso per il lustro successivo. Ora che a Calgary il termometro sul balcone segna -25, quelle stesse che a Città del Messico hanno sofferto di depressione acuta, di sindrome da generazione fallita – che cosa è andato storto, la pecora o il contadino? – circolano per casa così ingagliardite che non oso, pena congelamento da astinenza, riporle nemmeno momentaneamente nell’armadio. E invece, in un angolo dell’ultimo cassetto, mingherline, striminzite e irrigidite, riposano, spero non in eternum, le giovanette corte corte, estive ed emancipate. Ogni tanto le tocco, le accarezzo, tempo verrà, mormoro raccogliendole in un pugno – mentre per stringere, ma chi ci prova? le discendenti delle pecore, ho bisogno di uno di quei guanti da boxeur da trecento chili – e intanto gli occhi mi si riempiono di lacrime …

A proposito di occhi. Ieri sono uscita per venti minuti, (eh sì, aumentiamo la permanenza al fresco), ma non mi sono goduta affatto la passeggiata. Tutto il tempo ero assillata dalle mie ciglia. Si incollavano, si univano a mazzetti e si congelavano. E io a sbatterle come Barbie, nel terrore che quelle rimanessero appiccicate o me le ritrovassi ghiaccioli per terra. Per proteggerle ho infilato gli occhiali o meglio, ho pensato di infilarmi gli occhiali, che avevo sfilato poco prima con enorme difficoltà. E dopo averci pensato ho deciso che sì, valeva la pena, ed allora ho sfilato i due guanti (di una mano), cercato gli occhiali in tasca, provato a metterli con una mano, impossibile, sfilato gli altri due guanti (mentre la prima mano si stava congelando) e con le dieci dita ho spinto le stanghette sotto ai due strati di pecora (ed uno di poliestere – bandana particolarmente attillata altrimenti come mi protegge le orecchie?)  che mi coprivano il cuoio capelluto.

Decisamente meglio con gli occhiali. Mi pavoneggiavo come uno struzzo… complimentandomi per la fulmineità della soluzione, ma il tripudio è stato effimero, nel giro di un minuto la lente sinistra si è appannata e nel mezzo minuto successivo anche con l’occhio destro non vedevo nulla: il vapore del respiro, compresso dal momento che naso e bocca erano tappati da tre strati di sciarpa avvoltolati intorno al collo, come via d’uscita si arrampicava verso l’alto e si stabilizzava intorno agli occhi!

In genere uno ha bisogno di occhi, qui è vitale, se non guardo dove e come metto i piedi posso fare uno scivolone pacco super celere per l’altro mondo. E così, ripetendo i movimenti con fatica e apprensione ho risfilato gli occhiali e… dai con le ciglia attaccate! e rimettiti gli occhiali! e dai che non ci vedi! e toglili! e mettili! Con le mani sempre più tizzoni assenti. Fino alla scuola dove vado a fare la volontaria e lì…

Meno male che mi viene sempre la pipì e qui di bagni ce ne sono in quantità e puliti dappertutto (non come in Europa dove per fare le mie onnipresenti pipì son dovuta andare non so quante volte da Mac Donalds et similia – con aria saputa e dritta al tazzone gabinettario, senza nemmeno far finta di fermarmi al bancone degli acquisti!) allora, qui in questo mondo nuovo di Calgary, sono entrata in bagno e subito mi ha dato il benvenuto uno specchio a tutta parete (tre metri per uno – ne occupavo metà in larghezza con gli indumenti che avevo addosso), ho accumulato tutta la roba sfilabile e srotolabile sul lavandino, mi sono tolta gli occhiali per guardarmi meglio da vicino dal momento che sono miope e per poco non mi è venuto un colpo!

Chi era quella megera dalle guance completamente ricoperte di rimmel scucito e piovuto a rigagnoli dalle ciglia su tutto il viso? E di chi erano quegli occhi, neri e pestati, appena reduci da un combattimento con Diomede? Mentre mi pulivo, mormoravo tra i denti non è possibile, no, non è proprio possibile.

E se non avessi avuto la pipì da fare? Se mi fossi recata direttamente in quella classe di adulti nuovi immigrati?

Intanto, per il momento, c’è qualcuno che vuole il mio flaconcino di rimmel in regalo? E per oggi, è meglio andar fuori con Benedetta.

Usciamo raramente con Benedetta. Certo, se dobbiamo andare a fare la spesa allora la carichiamo a dovere di mele, arance e farina integrale, e magari ne approfittiamo per fare una puntatina dal macellaio (ci hanno consigliato di mangiare più carne per avere meno freddo) e un’altra in enoteca, anche se più che enoteca si tratta di un supermercato di alcoolici, dove entro e da dove esco sentendomi sempre l’ubriacone della taverna.

Anche se sei birre da mezzo litro ci durano in media da cinque mesi a un anno e una bottiglia di vino da tre quarti non si esaurisce in meno di due settimane, al solito è la percezione che conta, e qui dove l’alcool si compra solo da rivenditori specializzati, per me, ogni volta che vi accedo, è una confessione pubblica di debolezza ed ubriachezza. Di questo passo mi farò venire la cirrosi soltanto ad entrarci al negozio di alcolici! Comunque Benedetta in questi casi è utilissima, perché, ve l’immaginate caricarsi di bottiglie e mettersi a camminare sul ghiaccio alla nostra età? Lei ha sedici anni ma non li dimostra, e finora ha sempre fatto a modo il suo dovere. C’è stata è vero la crisi adolescenziale quando si è intestardita e bloccata dall’ansia si è impuntata su un ponte all’ora di punta – e per la vergogna e la rabbia mi ha portato sull’orlo di un isterismo acuto – ma, a parte scappatelle senza gravi conseguenze, è stata finora ubbidiente e solerte.

Qui comunque siamo afflitti da altri problemi che non dipendono dall’età. Appena la tiriamo fuori da quel sotterraneo dove l’abbiamo isolata – come in castigo, mi fa capire appena m’intravede – e la portiamo a prendere una boccata d’aria, si dà alla pazza gioia e ritorna a casa conciata in extremis. A Vancouver dalla sua veranda si godeva persino il mare, e i fiori e gli uccellini in primavera, a Calgary ho l’impressione che, in compagnia di altre bicocche e nemmeno una sorella, si senta relegata all’ospizio. Vorrei farle prendere più aria, ma, come accennavo, torna a casa impiastricciata di fango, terriccio e sassolini ed allora non so da che parte incominciare. Farle una doccia subito? Un bagno sarebbe meglio, ma non avendo i servizi in casa bisogna andare a quelli pubblici. E c’è sempre la fila, come in Giappone, e dopo un’ora e mezza di attesa e una strofinata a dovere, appena c’incamminiamo sul corso illuminato è punto e daccapo e da lucida e pulita diventa opaca e intoccabile la nostra Benedetta 751 volte, la nostra Volvo, BND 751, l’unica targa che rammento a memoria

Una volta l’ho persa. Parcheggiata e persa. Uscita dall’ufficio dell’avvocato non l’ho trovata più. E l’avevo lasciata solo un isolato più in là. In una strada tranquilla come l’olio. Che mi sono rifatta sette volte in una direzione e nell’altra, allargandomi di altre due isolati per essere sicura, ma oltremodo sicura che ‘non è che l’ho parcheggiata più in là e poi l’ho dimenticato?’. No, non c’era. Rubata. La mia Benedetta. Trafugata. Violentata. Chissà dove. E sono rientrata squilibrata dall’avvocato e la segretaria della segretaria e poi la segretaria e poi lo stesso avvocato (spero che non mi metta nel conto a 200 dollari l’ora queste sue parole di compassione e costernazione: che vita, che mondo e che natura infima. E pensi un po’ che questo è considerato un quartiere sicuro!) si sono avvicendati nell’incoraggiamento e nei consigli.

Telefoniamo alla polizia.

È meglio prima all’assicurazione.

Sì, ma hanno bisogno del rapporto della polizia. Ma chi può essere stato?

E questo nell’ora che la signora è stata qui!

Ma tu hai visto che giovinastri circolano ultimamente in queste zone?

Qual è il numero della polizia? 911?

Posso usare il vostro telefono dal momento che non ho un cellulare?

Ma certo, ecco guardi le faccio io il numero.

Un vocione, e la solita prassi. Tutte le generalità e poi un numero di riferimento. Che ho passato all’assicurazione. Dove mi hanno promesso una macchina in attesa di notizie della mia.

Vengo ora a prenderla?

Certo signora, l’aspettiamo.

Saluto i tre ancora in preda all’ansia e all’inquietudine. Non accetto la realtà che abbiano rubato Benedetta. Non parliamo di digerirla la faccenda, ma almeno riconoscere l’accaduto. No, ‘mi hanno rubato Benedetta’ circola ancora fuori, come un colibrì intorno a un fiore rosso. E mi rifaccio i cinque isolati, uno di seguito all’altro, per altre due volte, guardando a destra e a manca, persino nei garage delle case (e se avessi scambiato un garage per un altro e l’avessi messa lì invece che nel mio a 15 chilometri da qui?) E automaticamente una parte del mio cervello, quella che si dà da fare per ritrovare le cause perdute, si mette a recitare la litania che ho sentito a giorni o mesi alterni per tutta l’infanzia: Lena Santa Lena imperatrice, madre di Costantino imperatore, per terra andasti e per mare tornasti per ritrovare la croce di Cristo, tu la croce di Cristo la trovasti, fammi trovare la macchina Santa Lena mia. Fammi trovare la macchina Santa Lena mia. Fammela ritrovare.

‘La litania funziona, te l’assicuro,’ insisteva mia madre, nella speranza di convincermi, mentre cercava con occhiali spessi un dito, l’ennesimo ago che aveva perso sul pavimento. Mi meraviglio che non ci siamo mai ritrovati un ago nella minestra. Santa Lena deve averglieli fatti trovare tutti, nonostante la dissacrazione di mio padre.

Santa Lena, fammi ritrovare la macchina. Avanti ancora una volta, non è che abbia scambiato un colore per un altro e quella Volvo a fianco al negozio è la mia anche se questa è rossa e la mia è blu? Annaspo così a mio agio nelle assurdità che il corpo si avvia da solo, gira a destra e si fa un isolato in su, gira e sinistra e ritorna verso l’avvocato, ma di un isolato in su e lì, che sia benedetta 751MILA volte, lì, tranquilla come un uovo di Pasqua, mi aspetta la mia Benedetta 751 volte. Ma come? Allora non l’avevo parcheggiata nella seconda strada! Era nella terza! Ma come ho fatto a confondermi? E il rosso di un pomodoro fiammante mi sale alle guance. Devo chiamare l’assicurazione! La polizia! E chi avrà il coraggio? Che vergogna.

Pare che non succeda solo a me.

“Capita a tanti” ridacchia il poliziotto che nel frattempo è arrivato.

Ma intanto ora quando la lascio da qualche parte mi guardo intorno cinque volte, per imprimermi nel cervello le esatte coordinate, e se ho carta e matita, qualche volta mi scrivo pure l’indirizzo. Già, ma se poi perdo il pezzo di carta? Insomma, sconfino nella paranoia.

Non è tuttavia questa la ragione che m’impedisce di circolare spesso con Benedetta. Le macchine hanno per me la stessa importanza delle scope per spazzare il terrazzo e, difficilmente riuscirei a distinguere una Ferrari da una Toyota. Il problema è che quando usciamo insieme, sole sole lei ed io qui a Calgary, s’innervosisce per un nonnulla, scivola di qua, sbanda di là, si ombreggia, non mi fa vedere più nulla e vuole i tergicristalli sempre in movimento. Spruzzo acqua e pulisco il parabrezza, sforno vapore e schiarisco i retrovisori. Forse è il freddo, i miei occhiali si appannano, altrettanto i suoi. E così c’incontriamo sempre meno spesso, anche perché poi capita che se la porto ai bagni pubblici, dopo due ore di attesa e una sacrosanta strofinata, il primo bellimbusto maschio furgone che ci passa accanto la schizza senza pietà e il vestito della festa diventa straccio da buttare.

Vita di coppia

La mia dolce metà ed io andiamo a teatro, al cinema, a guardare le vetrine, a comprarci il dolcetto, a sentire il concerto, in ufficio e a scuola, dal barbiere e dalla massaggiatrice quasi sempre a piedi.

‘A che ora usciamo?’ mi fa lui, sapendo benissimo che sono quella che cento ne pensa ed altrettante ne fa – diverse da quelle pensate. E io, il naso perso a pagina 670 dei fratelli Karamazov, sbircio l’orologio, sono le dieci e dieci, ‘quando vuoi’, gli dico, ‘anche tra mezz’ora.’ ‘Va bene, allora tra mezz’ora siamo pronti,’ dice lui, col tono raramente speranzoso.

Alle dieci e venti comincia le vestizioni e alle dieci e quasi quaranta è apparecchiato da meno quaranta, la mano pronta sulla maniglia della porta.

Sono le dieci e trentanove, mi fa con un tono che vuole essere atonale ma che è già battagliero.

Ma io sono pronta! e balzo dalla sedia lanciando sul divano Dostoevskij.

Vedo, vedo, commenta lui.

In realtà sono io che vedo che lui sta cominciando a sudare, e mi precipito, infilando quello che mi capita, magari anche in ordine inverso, con i pantaloni da sci già abbottonati e la calzamaglia ancora da infilare e… mentre sono in bilico su una gamba con la pelliccia che mi pesa addosso con la sua quintalata di peli, mi ricordo e grido: il fazzoletto! È ovvio che ci pensi solo all’ultimo momento, in casa non lo uso mai.

Te lo do io, mi risponde lui, commento che dal tono di voce vuol dire, se non ti sbrighi, ti strozzo col fazzoletto!

Sono molto impulsiva purtroppo e, sfidando l’ira di Achille mi tolgo il giaccone-orso, lo butto sul pavimento (sotto la disapprovazione degli occhi di Achille), in equilibrio su una gamba per non sporcare la moquette col fango attaccato in fondo agli stivali ne metto uno e col piede stivalato fuori dalla porta metto anche l’altro e quando, sfidante, guardo negli occhi il mio consorte mi rendo conto dalla direzione delle sue pupille che io sono fuori porta, ma la pelliccia giace in mezzo alla stanza. Chi me la porta fino alla porta? A questo punto lui, a un passo dallo scoppiamento fisiologico e psicologico si avvia in avancoperta (sic) e mi lascia da sola a risolvere il dilemma.

Vado giù, ti aspetto fuori, dice.

Ok, ok, gli rispondo e intanto cerco, implorante… un lacchè… uno solo, mica centomila. Per favore lacchè portami la pelliccia, aiutami ad infilare gli stivali lacchè, prendimi un fazzoletto lacchè… mica per cucinare, pulire la casa, i bagni, no, no, solo per darmi una mano a vestire e spogliarmi. Perché poi la stessa scena si ripete non appena mettiamo piede in un negozio. La mia metà si porta appresso lo zaino e ci infila dentro la roba che si toglie, pregandomi di approfittarne e metterci anche la mia. Spesso lo faccio senza scrupoli, ma talvolta voglio essere indipendente (!) e allora mi accartoccio sotto le ascelle, tra le mani, nelle tasche, tutto quel ben d’inverno e finisco sempre col perdere qualcosa. E se non sono io ad accorgermene (o la mia metà che in quei momenti non vorrebbe essere nemmeno la mia milionesima) c’è sempre qualcuno che mi rincorre a consegnarmi un guanto o si china a raccogliermi una sciarpa.

Se non c’è nessuno intorno allora gli indumenti li trovo appesi nell’ingresso del palazzo dove abitiamo, come l’altro giorno, quando Luciano dall’ufficio mi lascia un messaggio telefonico per dirmi, credo che giù hanno appeso al muro un tuo cappello, puoi andare a vedere se è il tuo?

… era proprio il mio…

Ma come faccio? La 24 ore non mi basta, allora devo portarmi il baule dietro e riempirlo ogni volta che entro in un negozio con tutti gli strati che mi tolgo di dosso? Nell’attesa del lacchè mi abbandono ad altri sogni selvaggi. Un termosifone incandescente sotto l’ombrello, come le piastre di ghisa dei ristoranti all’aperto a -10. Una si veste leggera come madre natura tropicale comanda e lì, a mo’ di turbante e a trenta centimetri dal cuoio capelluto, un bel fornello arroventato a difenderla dagli elementi. Chissà perché non l’hanno ancora inventato…

Perché non dici nulla? mi chiede talvolta la mia metà mentre, intabarrati come due rapinatori, il passamontagna fino alle ciglia inferiori e il cappuccio fino a quelle superiori, e rallentati nei movimenti da mezzo metro radiale (a testa) di tessuti protettivi, camminiamo per il corso principale della città. Più che camminare devo dire che a volte disegniamo percorsi arabescati o esoterici, perché mettiamo un piede davanti, dietro, in diagonale rispetto all’altro, per evitare gli strati di ghiaccio e i cumuli di neve.

E come faccio a parlare? gli rispondo senza articolare. Le parole diventano aria e l’aria si congela in bottoncini di ghiaccio sotto la sciarpa e poi i bottoncini si stringono e come mattoni irrigidiscono il cachemire.

Per parlare entriamo nel centro commerciale e l’altro giorno siamo finiti in dei giardini coperti, piante vere con i colori veri, ma facevano tristezza lì, con i negozi di sotto e il cielo isolato dalle vetrate ad arco.

Venerdì sera tanto per cambiare siamo andati al ristorante. Uno di lusso, con le candele e gli abiti da sera. Ma chi se l’immaginava! Si mangia bene, ci avevano detto e piuttosto che cercarne un altro intirizziti dai -19, ci siamo accomodati senza tanti problemi. Si fa per dire. Dieci minuti dalla sola guardarobiera e poi, sentendoci nudi come Adamo ed Eva, ci siamo issati al tavolino. Gli sgabelli erano un po’ alti e chi vedo giocherellare sul parquet tirato a lustro? I miei mostriciattoli! I miei orrendi stivali da guappo perdigiorno, neri, inzaccherati di fango e poltiglia, grossi come zampe d’elefante, da cui spuntano i calzettoni blu a righe bianche, seguiti da un pantalone marrone vecchissimo, e tutto questo sotto gli sguardi di clienti impomatati che mi passano davanti. Faccio brutto viso a inesistente gioco e mi rabbuio come un calderone ma, ne vale la pena? mi consola la metà. E che puoi fare, mica correre (si fa per dire) a casa a cambiarti?

Ma i nativi come fanno? Quelli che si azzardano ad andare a piedi, sì, come fanno?

Un po’ di spirito d’osservazione aiuta sempre e così scopro che i Calgaresi purosangue camminano con gli zamponi, ma poi si portano sottobraccio in una borsa o in una busta le scarpette presentabili, o semplicemente le allacciano e se le dondolano lungo i fianchi, a mo’ di borsetta ultima moda

E così anche le scarpe mi sono portata in quella famosa scuola, dove comincio alle nove e mezza, ma arrivo alle nove meno cinque, per avere tutto il tempo necessario ad uscire dall’inverno di cui sono vestita.

Comunque la sera del ristorante smart (qui dicono smart e mi chiedo sempre come un ristorante o un cappotto possano essere smart – che io traduco ‘intelligente’ in italiano – ma comunque così è), quindi quella sera lì, dopo il ristorante intelligente siamo anche andati a teatro, uno spettacolo anche quello smart intelligente, un Rachmaninov da farti saltare in piedi ad applaudire. E i miei piedi sono letteralmente saltati fuori dalle zampe, pena il liquefacimento immediato dovuto alla sala surriscaldata. E non mi vergognavo nemmeno, anche se, passando davanti ad uno specchio, durante l’intervallo mi sono chiesta, incredula e pallida, ma sono proprio io questa con i pantaloni alla zompafosso, mezzo infilati negli stivali sgarruppati da cui s’intravvedono calzettoni bandiera?

La stessa domanda mi pongo quando, al rientro dalla sfida alle intemperie, mi ritrovo nel corridoio del condominio dove abito. La portinaia ha appeso uno specchio a un metro dall’ascensore e le prime volte mi sono chiesta: perché? Forse così uno si guarda e vede se si riconosce e si chiede: è sicuro che abito proprio qui? Io non mi chiedo se abito qui, mi domando invece, è sicuro che sono proprio io? Perché quella testa che viene fuori appena mi scappuccio con i capelli che vruuuum si lanciano all’assalto dritti come aghi di un porcospino imbizzarrito, quei capelli che se oso avvicinarmi con la mano mi seguono come pini arrabattati dal vento, quella ruota di capelli ad alone di santo del giudizio universale… quei capelli ohibò sono proprio i miei!

Ma non sono i soli a caricarsi di elettricità statica. La coperta rossa che talvolta di sera aggiungo al piumino, quando a metà notte la lancio dal letto fa scintille pirotecniche e così le mie dita nel toccare gli interruttori, le maniglie delle porte, perfino la mano della mia metà.

Un paio di settimane fa quando l’aria era talmente secca che mi mettevo sulla pelle continui strati di olio fino a chiedermi stranita se per caso non mi provocassero un ingrassamento dall’esterno, per evitare scintille Luciano si è preso un cucchiaio e con quello si è avvicinato agli interruttori.

Funziona? gli ho chiesto incredula.

Certo, perché il metallo scarica l’elettricità.

Ah sì?

Ed allora mi sono armata di un cucchiaio e con quello me ne sono andata in giro per casa. Una lampada da accendere? zac, prima una cucchiaiata! Un interruttore da spingere? Zac un’altra cucchiaiata. E la sera, all’ora dell’abbraccio della buonanotte tra noi due (perché l’uno va a dormire due ore prima dell’altra) quando il mio amore si è avvicinato, invece delle solite precauzioni per evitare scintille malaugurate, zac una cucchiaiata!

Gli eschimesi si salutano a nasate, noi lo facciamo a cucchiaiate.

Sempre meglio delle forchettate.

Esplorare i dintorni

Per il compleanno di Luciano siamo andati al lago Louise, sulle Montagne Rocciose.

Abbiamo camminato sulle acque, facile tutto sommato quando un metro di ghiaccio ti separa da quelle ancora in burbuglio lì sotto… Ci siamo sentiti bene e soli nella culla del mondo, camminando guantone nel guantone come gli innamoratini di Peynet, ma poi è arrivata un’armata di giapponesi a rompere l’idillio e allora ci siamo avventurati nel vialetto sotto la montagna, più tranquillo e meno rumoroso.

Non solo sulle acque si cammina al lago Louise, anche sulle cascate. C’erano due alpinisti che si arrampicavano sull’azzurro dell’acqua congelata nel movimento. Scena apocalittica, ancora un po’ e perdevo i sensi a guardarli.

Luciano è piuttosto rilassato quando cammina sulla neve e sul ghiaccio, io mi sento come su una distesa di gnocchi appena fatti. Da non calpestare. E ovviamente lui mi sciorina tutte le sue teorie. Vedi, mi spiegava quella mattina, devi mettere i piedi dove ci sono i sassolini, quelli creano attrito e tu vai tranquilla perché così non… cadi… Solo che l’ultima parola è stata mormorata a labbra strette mentre cercava di rialzarsi dallo scivolone che quel birbaccio di un sasso gli aveva provocato.

Al ritorno al parcheggio – accuratamente ricoperto da un lastrone di ghiaccio e che noi abbiamo raggiunto per vie traverse – abbiamo trovato un gruppo di gente indaffarata intorno ad una macchina slittata in una cunetta. E mo’ come facciamo? sgrano gli occhi io, già in preda ad un attacco di ansia. Non preoccuparti, consola lui serafico, e allora per dominare il panico mi distraggo a guardare un trio di donne della mia età, Camminano con assoluta sicurezza mentre io, se mi azzardo appena con la punta dello zampone, sento già strette invisibili che mi trascinano a capofitto sul ghiaccio.

Come fate? chiedo alle tre e quelle senza vanagloria mi mostrano la pianta dei piedi. Attaccati agli scarponi-stivaloni hanno degli aggeggi di metallo che pare creino una presa inattaccabile sul ghiaccio più astuto. Ed a giudicare dal modo come le tre si muovono –confidenza, semplicità e noncuranza – qualcosa quei ramponi devono pur fare.

Dove li avete comprati? m’informo subito e, soddisfatta della risposta, li vedo già incollati ai miei piedi imbranati.

Ma non c’è nemmeno bisogno di recarsi al negozio in periferia, li trovo sotto casa.

Vittoriosa li porto a casa come un oggetto sacro e muoio dalla voglia di provarli subito. Mica facile affibbiarli agli scarponi, quelli se ne scappano come da una prigione! Borbottando a denti stretti già mi ci vedo per strada, con i ramponi da ghiaccio che si staccano ed io in equilibrio precario che cerco di rimetterli a posto. Ma forse sono inutilmente pessimista. Dopo solo undici minuti di trattative il fondo scarponi è bell’e incapsulato ed io sono prontissima ad infilarli. Sulla moquette riesco a muovermi, anche se a disagio, ma appena dal corridoio mi avventuro sulle scale ricoperte di linoleum, non scivolare è una prodezza da equilibrista.

Come se avessi ambedue le gambe inservibili mi aggrappo alla ringhiera e mi lascio ruzzolare, pregando ovviamente che l’angelo custode non si distragga. Non vedo l’ora di essere sul ghiaccio – o meglio – di abbandonare il linoleum. E meno male che l’atrio dell’immobile è ricoperto da uno strato di moquette spessa, altrimenti sai che cascatone!

Non c’è nessuno intorno, cammino come un elefante, issata sui ramponi come su paletti di ferro. Anche sul ghiaccio non funzionano, no, sono troppo alti, due pollici di ferro attorcigliato sotto i piedi, no, no, non sono nata acrobata. Eppure quelle donne al parcheggio sembravano così a loro agio. Vuoi vedere che ci sono altri tipi, magari più bassi, magari con meno ferro attorcigliato, su cui non mi sento come su due pioli?

Mi tolgo gli aggeggi e passo all’attacco. Comincio con una marea di telefonate. Alcuni negozianti non capiscono nemmeno cosa cerco – e neanche io so esattamente che cosa voglio – ma da un centro di attrezzi per alpinisti mi rispondono che ne hanno almeno di tre tipi. E così, col timore di scivolare, ma nella speranza di dominare, cammino, saltello, devio, affondo, evito, ritraggo e finalmente arrivo.

Sì, hanno tre tipi di ramponi, ma il primo è esattamente come quello che ho comprato (e già riportato al negozio sotto casa. Che bello il Canada. Puoi riportare tutto, angurie, birre, vestiti, libri, televisori, divani, chissà se anche la vita ti consentono di riportare, questa non mi piace, voglio provarne un’altra, oppure, posso tenerla per una settimana e poi decidere?) e quindi scarto la prima scatola come un animale infetto; il secondo e il terzo modello sembrano uguali, ma ci sono piccole differenze e non solo di prezzo e di marca. Non ho elementi per l’uno o l’altro paio e decido in base all’istinto e al prezzo… se sembrano uguali e costano di meno perché spendere di più?

Questa volta non torno a casa vittoriosa, ma meditabonda – e se sono scomodi come gli altri – e se mi faranno sentire sui trampoli – e se sono difficili da mettere.

Difficili sì, sono difficili da affibbiare agli scarponi, ma l’acciaio, o l’alluminio, ferro, amianto… arrotolato, pur essendo più spesso è meno alto, quindi forse non perderò l’equilibrio come su quegli altri. Non mi allontano molto da dove abito, le prove le faccio sotto casa, sotto gli sguardi degli operai che lavorano giorno e notte per costruire qui a fianco un palazzone e che si chiederanno, vedendomi andare su e giù sugli stessi tre metri di ghiaccio, se per caso non stia cercando oro lì sotto, o la cacca del cane del vicino congelata.

Questi ramponi vanno così decisi all’attacco che s’incastrano nel ghiaccio e non ne vogliono sapere di staccarsi ed avanzare. E no, non è possibile, i miei piedi sono incollati, sono immobile nel tempo e nello spazio, se ci penso un secondo di più precipiterò come corpo vivo cade. Mi do coraggio, altrimenti mi metto a gridare come un’isterica, mi arrabbio e spingo e muovo e vengo fuori e lo sforzo per poco non mi manda a gambe all’aria. Questi aggeggi… io!… immediatamente li riporto al negozio! ma lo denunzio quel venditore, in tribunale lo porto, insieme alla ditta che li ha fatti, ma questi sono assassini, omicidi stanno commettendo! Infuriata mi sfurio per strada e la rabbia sbolle quando i commessi si danno a scuse (ancora un po’ e mi portano fuori a cena) e mi propongono l’ultimo paio senza nemmeno pagarlo, per prova e regalo.

L’ultimo paio non si attacca al ghiaccio come una sanguisuga, ma quello strato di acciaio e gomma rombato e zigrinato che mi agguanta gli scarponi premendomi sulla punta e al calcagno non è proprio la cosa più confortevole di questo mondo e così miseramente finisce il mio tentativo, pur agguerrito, di dominare le insidie gelate.

Ma chissà quelle tre donne come facevano!

Nei parchi e negli oceani

Nei parchi è meglio andarci almeno in tre avvertono (se si tratta di donne – non so se l’altro sesso abbia diritto a due o alla solitudine), così se un animale attacca ci si può difendere o correre a chiedere aiuto. Ma a me piace camminare anche da sola, non sempre in compagnia. E poi, quale animale può aggredire d’inverno? Non dormono? E se mi vedono impellicciata e con gli zamponi non mi scambieranno per una di loro? E quindi dov’è la paura?

Anche in città sembriamo tanti animali all’assalto di negozi. Non che non lo siamo – animali – ma preferiamo definirci persone.

Quando mi rilasso dalle intemperie e mi distraggo a guardarmi intorno, circondata come sono da pellicce e giacchettoni impellicciati  – che rendono i piedi e le gambe delle cosiddette persone simili ad estremità elefantesche – mi diverto a pensare che se per caso qualche orsone svegliato a bruciapelo dal letargo si trovasse a camminare per il centro città si crederebbe il dormiglione della mandria. Ma come, tutti gli altri della sua razza sono lì a gongolare e lui invece a dormire e non prendere pesci? L’unico dubbio gli verrebbe nel vedere come quegli altri lì, gli orsi di città, camminano su due invece che quattro zampe. Forse il mondo è cambiato mentre lui dormiva. Comunque no, non partirebbe all’attacco. Quegli animali da passeggio hanno la testa, il corpo, i piedi di peli come lui, quindi li lascerebbe tranquilli e se ne andrebbe a pescare pesci. Che è difficile trovare perché il fiume è ancora gelato e allora il nostro orso si stropiccerebbe gli occhi e tornerebbe a dormire.

L’estate scorsa mi sono arrampicata sul parco Garibaldi. Una salita che non finiva più. In tre eravamo, anzi quattro ed una aveva perfino la campanella antiorso, una cosa che faceva dindin ad ogni passo e che dopo mezz’ora aveva dato ai nervi a tutte. Di comune accordo abbiamo zittito la campanella e ci siamo messe a chiacchierare a voce alta, a ridere a sguaiatella, sempre con l’obiettivo di scoraggiare un attacco orsaiolo. Ma gli orsi non vengono, a meno che non abbiano veramente fame. E poi anche in quel caso si è preparati, perché le guardie forestali forniscono un’intera enciclopedia su come evitare gli orsi ed eventualmente difendersi.

Non bisogna usare deodoranti, profumi di nessun tipo, conservare il cibo in diversi strati di plastica, contenitori sigillati è meglio e, se nonostante tutte le precauzioni un orso dovesse apparire, allora… bisogna fare l’attore: alzare le braccia, allungarsi, allargarsi, diventare grossi – e come, se uno è tappo come me? Dimenandosi, si spaventa l’animale che crederà (ma è così cretino?) di avere a che fare con un energumeno molto più grosso di lui. Con la coda fra le gambe cambierà direzione. E se quel particolare orso non è scemo? D’altra parte, il fatto che i bidoni per la spazzatura nei parchi siano complicatissimi ed a prova d’orso (e la prima volta che abbiam dovuto usarli in tre – due uomini e una donna per la precisione – ci siam grattati la testa per un’eternità prima di riuscire ad aprirli) non vuole dire che questi animali proprio babbuini (nel senso umano) non sono? Comunque ne ho fatte tante di passeggiate nei parchi, da sola e in compagnia, ma mai un orso ho incontrato. Delusa? Un poco, il pericolo è bello perché poi ti fai bellissima a raccontare. Come a settembre.

Ero a casa, sul balcone a stendere i panni, ma questo a Vancouver, dove abito in una villa con giardinone, quando, guardo giù nel giardino e chi ti vedo locco locco sull’erba? Un cane enorme!!! Ma che ci fa un cagnone nel mio giardino? E no… non è possibile! Non solo quel brutto cagnetto rognoso del vicino di fronte viene a fare i suoi bisogni sulla mia proprietà ma adesso anche questo gigante che chissà a chi appartiene! Ho gli strali che mi escono dagli occhi, ma non colpiscono perché gli occhiali li bloccano. E meno male che ho gli occhiali, perché guardando meglio il cane smisurato mi accorgo che è…. un orso! Oh mamma un orso! Non è possibile, un orso nel mio giardino! Un orso… e se la porta di giù è aperta?

Lascio il cesto di biancheria e mi precipito in cucina, giù per le scale a razzo per andare a controllare la porta del pianterreno. Sento una macchina, un’altra porta della mia casa (ce ne sono cinque tra balconi e altro) che si apre e mio marito che arriva. Luciano!!! gli urlo a metà rampa, c’è un orso nel giardino! Silenzio, oddio, forse l’orso se lo è mangiato.

Luciano!!! riurlo, c’è un orso nel nostro giardino! e intanto corro verso la porta d’accesso al soggiorno. Silenzio. Oh, ma è proprio vero che più uno diventa vecchio e più sordo diventa. Luciano!!! ormai grido in preda al parossismo e lui che in quel momento appare dal fondo delle scale, si sfila dalle orecchie gli auricolari e scocciatissimo esclama ehi, mica c’è bisogno di urlare, ci sento, sai! Ci senti, ci senti… sono ore che grido che c’è un orso.

Cosa?

Un orso!

Stai scherzando.

No.

Non è possibile.

L’ho visto andare verso il compost.

Ti sei sbagliata. Era un cane.

Era un orso (sto bollendo di rabbia e se lui non la smette divento io l’orso e lo sbrano come un orso).

Sicuramente ti sei sbagliata. E dove sarebbe quest’orso?

L’ho visto andare verso il compost.

E vediamo (condiscendente, ma prima va nell’armadio a cercare il binocolo).

Ci avviciniamo guardinghi alla porta (chiusa) del piano di sotto che dà sul giardino, proprio di fronte al contenitore del compost. Non c’è niente, nessuno, non si muove una foglia. Luciano grida vittoria prima ancora di andare alla guerra.

Ti sei sbagliata, era un cane.

(Se lo dice un’altra volta giuro che lo scalpo). Usciamo e andiamo a vedere, propongo.

Lui rimane in retroguardia, col binocolo attaccato agli occhi. Io, che per “e mo’ ti faccio vedere io di che sono capace!” quando sono in compagnia mi butto allo sbaraglio, avanzo circospetta ma a passo sicuro verso il bidone del compost. Nulla. Ho sognato, mi rimprovererà Luciano… ma poi mi giro e, proprio sullo steccato che divide il nostro giardino da quello del vicino di sinistra, vedo l’orso che sta cercando di saltare impigliato tra i rami. Eccolo, eccolo è là, urlo in preda all’eccitazione della conferma e Luciano, binocolo agli occhi, finalmente acconsente.

È proprio un orso! Avevi ragione!

(E quando mai ho torto!)

Ma intanto l’animale si è divincolato ed è saltato al di là della siepe, nel giardino del vicino. Bisogna correre ad avvertirlo, attraversiamo in fretta il giardino e lo vediamo fuori seduto tranquillo e pacifico a sorseggiarsi una bella tazza di caffè.

Pat, c’è un orso nel tuo giardino, gli grida Luciano.

Un orso?

Sì, è lì, lo vedi?

E Pat lo vede e se la dà a gambe. Si tappa in casa. La tazza del caffè abbandonata sola sul tavolo di vimini.

  • •••••••••••••••••

E pace all’anima ed al corpo dell’orso… Se invece mentre fischietti beato sotto i cipressi alti e schietti ti guata un puma allora il discorso cambia. Devi fingerti morto. Morto di paura, d’infarto, ma morto e se quello si avvicina per fiutarti tu devi stare immobile. Se poi soffri il solletico come me e ti viene la risarella nei momenti meno opportuni allora è meglio – se hai la proprietà (come tutti hanno la casetta in Canadà) – che prima di partire in esplorazione tu ti faccia il tuo testamento.

Un puma ha ammazzato madre con bambini l’anno scorso, e non è che fossero tanto fuori città. Io i gatti non li sopporto, immaginiamoci i puma! Perciò ho più paura di loro che degli orsi.

Ma neanche le foche mi piacciono. Se sono allungate al sole – madre, padre e piccolo – sulle rocce e lontano dai miei metri cubi di territorio mi fanno persino tenerezza, ma se poco poco si tuffano a nuotare quando nell’acqua ci sono io! allora, me la do a gambe, metto i motorini a elica ai piedi e via come un razzo. Sembro la palla in fuga dei fumetti, non respiro nemmeno, e solo quando raggiungo la riva mi volto a guardare. Foca e fochetta sono ancora ad abbronzarsi, ma il focone dov’è? Hai voglia a guardare il mare, quello sembra liscio e tranquillo, però traditore è, ammoniva mia nonna e infatti… eccolo lì il disturbatore della quiete pubblica (mia, dal momento che non c’è nessun altro a nuotare). Solleva la testa dalle onde, scompare nel fondo, riemerge, riaffonda, tranquillo come fosse a casa sua. E io, che sto qui a intirizzirmi nel vento, quando potrò tornare a nuotare? Un passante curioso m’incoraggia ad entrare, le foche non fanno nulla dice, basta che tu non le disturbi e quelle ti lasciano tranquilla.

E se mi viene proprio vicino mentre nuoto?

Ma non ti fanno niente.

E se per sbaglio le tocco?

Non succede niente.

(Sì, voglio vedere te al posto mio, e perché non ci vai tu nell’acqua?)

Ma il passante coraggioso mica sta morendo dalla voglia di nuotare, a lui del mare non gliene importa niente, e dopo aver raccolto una conchiglia grande come una mano, se ne va nel nulla da dove era apparso.

Mi lascia a meditare.

Che faccio? Il focone si è allontanato, vedo la sua testolina laggiù, nemmeno i baffi riesco a decifrare. Però quello che ci mette a raggiungermi? Ma non ha i sensi di colpa per aver lasciato moglie e figlia sole? E che razza di padre è? Perché non c’è un esercito di turisti a disturbarle così il guarda famiglia esce dall’acqua ed io me la posso godere? Non se ne parla proprio per ora però il vento si è calmato, le nuvole fuggite e lasciato il campo ad un sole caldo da farsi accarezzare. Gliela regalo tutta la mia pelle. E mi addormento. Forse cinque, otto minuti. Al risveglio le foche sono in tre ad asciugarsi ed allora mi tuffo a bagnarmi. Mi tuffo, si fa per dire. Avanzo a passettini, come la lumaca di Prévert che, andando al funerale di una foglia morta, partì in autunno per arrivare soltanto in primavera.

Anch’io mi prendo tutto il tempo e lo sostituisco col coraggio. Di affrontare il freddo, il gelo, la corrente polare che ti sega le gambe, l’onda mozzafiato che ti sbrana la pancia…! Ma chi te la fa fare? Ma perché ci vai? dicono nei ricordi le spalle delle amiche che si alzano e si abbassano (le spalle), perché non vai in piscina? In piscina? Tra quei corpi che avanzano dritti come macchine sull’autostrada? In quel verde di cloro che ti rimane addosso per tre giorni? No, io amante della natura sono e nella natura voglio morire.

Talvolta penso proprio che ci morirò nell’oceano a 15 gradi.

Pur se prendo tutte le precauzioni e regalo al gelo un centimetro di pelle al minuto – ed anche quelli con parsimonia, lanciando a turno una gamba all’aria se la morsa del freddo strozza le caviglie – quando finalmente decido di affidare al freddo la pancia e lo stomaco, il petto, le braccia e le spalle… il cuore fa un salto, come se volesse ripararsi. Quando il colpo passa, ritrovo la padronanza di me stessa ed allora mi dico spavalda – o incosciente – o il mio cuore deciderà di smettere di battere, oppure, con questi choc che subisce diventerà talmente forte da continuare a funzionare anche quando sarò defunta e seppellita. Meno male che ho deciso per la cremazione.

Dopo la mezz’ora di ingresso mi metto a nuotare come una furia per non permettere al corpo di rilassarsi nemmeno un minuto. Ho imparato a stare in superficie come quei sacchettini di plastica che galleggiano a pelo d’acqua. Se per caso abbandono le gambe alla forza di gravità le correnti polari me le graffiano in una morsa ed allora mi consolo con immagini assurde: la borsa dell’acqua calda a risanare le mani, le babbucce della nonna ad avvolgere i piedi!

Guai, guai a mettere la testa nell’acqua! Allora sì che il cervello si pappizza (quello che mi è rimasto; secondo mia cugina l’ho perso da un pezzo) e le tenaglie frantumano la fronte. Ma ormai ho imparato bene come si fa a muoversi a rana (a pelo d’acqua ovviamente) e con la testolina fuori, come le foche. A proposito di foche, adesso che finalmente stavo per rilassarmi, vuoi vedere che quello lì ci ha ripensato? No, no, è un buon padre di famiglia. E mentre lui fa il casalingo io me la dò alla pazza gioia. Finalmente! Perché è una gioia fuori dal comune quella che provo quando il corpo cede e la mente si ripete com’è bella quest’acqua, che meraviglia, così trasparente, non c’è nessuno, nemmeno le onde, una distesa di natura e d’incanto e io qui da sola, è un sogno.

Quando esco dall’acqua non ho mai freddo, la temperatura esterna, pur essendo solo di 22, 25 gradi, è talmente calda rispetto all’oceano che, rinvigorita, ringiovanita – rinsavita non ancora – mi allungo sulle rocce senza nemmeno l’asciugamano e sento penetrare nel corpo il calore e la solidità della terra.

L’abbraccio della madre, l’abbandono della figlia.

 

Tempo, Spazio, Temperatura

Il tempo e lo spazio sono categorie (stavo per scrivere caricature), non esistono come realtà palpabili.

Che ironia però, non esistono di per sé, non hanno una lunghezza, un’altezza, una profondità e tantomeno un peso, eppure sono stati misurati e sezionati fino all’inaudito. Ma imprigionati e incapsulati sfuggono dalle dita e si ribellano.

Se vado di corsa mi manca il tempo, se mi prendo un libro da studiare, noiosissimo e barboso il tempo non passa mai. Mai ascoltato un’omelia alle undici e mezza di una domenica di primavera? O una lezione di analisi matematica alle due e quarantacinque quando sai che alle tre il tuo bel tenebroso ti aspetta fuori? Oppure atteso un aereo che ha solo un quarto d’ora di ritardo?

Perché è così variabile questo concetto diviso e calcolato fino all’inverosimile?

E lo spazio poi, un’altra assurdità. Abito a Vancouver e i miei figli studiano a Toronto, cinquemila chilometri di distanza. Per farlo capire a mia madre le spiegavo, immagina che tu vivi a Roma e loro vanno a studiare in Russia. In Russia? (a parte tutti i sentimenti che la Russia suscitava al tempo della guerra fredda), in Russia? così lontano? ma non c’è un’altra università più vicina? Sì, sì, certo che c’è, ma quella di Toronto per la loro facoltà è migliore. E quanto tempo impiegano per andare a Toronto? Cinque ore d’aereo. E se dovessero andare in macchina? Tre giorni e tre notti. Madonna mia!

Certo, ma a me sembrano vicini. E no, non è l’amore materno (che anzi lontano dagli occhi, lontano dal cuore), ma è questo spazio che mi corteggia e m’imbroglia. Se devo andare a Toronto non ho problemi, un solo aereo ed è fatta, ma… ma se mi trovo in Italia e devo andare da Siena a Pescara allora… come mi sembrano lontane queste due località

Un attimo però, analizziamolo questo spazio misurabile in miglia e millimetri. Quanti saranno, trecento chilometri tra città e città? E che cosa sono trecento chilometri? Quasi la ventesima parte dei cinquemila canadesi e… mi spaventa farli? mi sgomenta la distanza? C’è qualcosa che non va. Come, per esempio, farmi un viaggio oltreoceano, arrivare dal Canada a Roma e scoprire che la passeggiata della sera prima a Toronto appare lontanissima, come se fosse avvenuta un mese, un anno prima, come se fosse lontana diecimila chilometri di tempo. Ma non continuo con gli esempi; tutti ne abbiamo le tasche, le valigie e le vite piene.

Mi interessa qui piuttosto osservare la temperatura.

Abbiamo comprato due termometri da quando siamo a Calgary, uno minuscolo che Luciano si è appeso allo zaino come fosse un portafortuna (anche se mi chiedo a che serva, dal momento che è scomodissimo per lui mentre cammina sfilarsi lo zaino e leggere il termometro – che comunque non potrebbe decifrare perché gli occhiali da lettura li conserva non so in quale tasca interna di quale giacca sotto al cappotto… quindi perché si è comprato quel termometro? ma soprattutto, perché lo ha appeso lì? Valla a capire la logica maschile, eppure lui è così ordinato e razionale!)  e un altro termometro un po’ più grande che – sempre Luciano – ha infilato tra i doppivetri della finestra del soggiorno. Ma con la testa all’ingiù il termometro. E perché? gli ho chiesto quell’unica volta in cui ho avuto voglia di guardarlo (il termometro). Così si legge meglio, mi ha risposto. Ah! Non ho capito la risposta, ma non me ne importava. Immagino che sia perché, dal momento che la temperatura a Calgary è spesso sotto lo zero tanto vale girare il termometro sottosopra ed illudersi che sia sopra lo zero. No, questa è un’interpretazione da sognatore, e se c’è una sognatrice in casa quella sono io e non certo la mia metà, quindi… quindi devo rifargli la domanda e digerire la risposta.

Comunque ci sono altri due termometri in internet che lui consulta – non so perché due e non solo uno, ma così è. Il problema è che questi due termometri non funzionano in armonia e ci sono sempre delle differenze tra loro, talvolta persino esagerate. Quindi il mio amore, per scaramanzia, va sempre con lo zaino ben fornito di indumenti. Non si sa mai, e se il termometro che indica -dieci ha ragione? E se quello di +cinque non è rotto? Il che vuol dire che uno qui, oltre agli abiti invernali deve portarsi addosso anche una discreta scorta di abbigliamento estivo.

Prendi ieri, per esempio. Io non consulto i termometri (preferisco gli oracoli) e prima di uscire avvicino la mano alla finestra aperta – non posso metterla fuori perché la rete antizanzare sbarra tutto. Se non mi si congela, apro il balcone e dopo il naso avanzo il braccio e persino un po’ del corpo all’aria fresca. Così mi regolo e decido.

Ieri era una giornata favolosa, un sole splendido ed una temperatura così dolce che te la volevi mangiare come una mousse al cioccolato. Non mi sono intabarrata, ma guanti e sciarpa me li son portati in borsa.

Lungo il fiume le oche si rincorrevano, si alzavano in volo, si facevano i dispetti, si adagiavano sull’acqua con una leggiadria da fate di seta. Anche se gracchiavano come delle sacrosante oche, facendo un chiasso del diavolo.

L’inverno vanno via, non so dove, ma non pare molto lontano da qui. Cominciano a tornare a febbraio e al tramonto le vedi andare in cielo in fila indiana, se arriva il bel tempo verso sud est e se invece si prevede maltempo verso nord ovest. A volte indecise volano avanti e indietro – forse anche loro preda di termometri fasulli, ma è uno spettacolo da guardare ad occhi spalancati questa fila nera perfetta e a vu che si staglia contro il cielo nella luce rossa del giorno che finisce.

Anche quando si alzano dall’acqua, se sono in gruppo, si librano con la stessa grazia e simmetria. Sono raramente solitarie, come minimo in coppia. Non so distinguere il maschio dalla femmina, mentre per le anatre sì, è più facile, le femmine sono tutte di colore marrone, mentre i maschi hanno la testa verde e un corpo lucidissimo nero e bianco. Anche loro vanno in giro a due, è primavera, sono in amore pure qui.

Leggevo sul giornale che sono esattamente dieci anni che una coppia di oche torna a fare il nido sullo stesso balcone. La padrona di casa l’ha ormai adottata, ha battezzato, chiamandoli Kayda e Albert, moglie e marito e fa da madrina ai figliocci quando le uova si schiudono e le testoline spuntano fuori. Non solo, si preoccupa anche che non si facciano male. Appena li scopre grandicelli, si mette d’accordo con la mamma (non so in quale lingua) le dice di aspettarla giù in strada e lei…  si carica del nido ed occupanti, lo mette nel carrello della spesa, prende l’ascensore, esce dal portone ed incontra proprio lì fuori la mamma che attende paziente. Insieme, come due brave signore di mezza età, chiocciolando chiocciolando si avviano verso il lago. Una volta lì, i piccoli si accodano a mamma oca ed imparano prima a nuotare e a volare.

Per me, la parte più difficile di tutta la storia è l’ascensore, l’intesa fra le due mamme… boh. Invece Luciano se ne è uscito, quando gli ho raccontato la storia, ‘ah, la signora li ha adottati i piccoli… eh sì, così se li mette a carico e non paga le tasse!’

Sempre pratico e diretto lui, come la settimana scorsa quando, all’uscita da uno spettacolo di danza di aborigeni, mentre in preda all’estasi gli raccontavo delle mie reazioni e gli dicevo, però, Luciano, vedi che bella la filosofia di quegli indiani, per loro tutto quello che succede nella vita è sogno, allora, se pensi che tutto è un sogno è fantastico, è poetico, straordinario, non ti pare? tutto nella vita acquista un’altra dimensione.

Ero partita in quinta e lui tomo tomo mi risponde, ma se tutto nella vita è sogno, perché io devo sognare di lavorare?

E già! E crollò il mio visibilio!

Ma torniamo al lungofiume.

Le oche starnazzano e gli uccelli cinguettano. Da questi ultimi niente di nuovo, si sgolavano già quando c’erano meno trenta ed io, resa dagli abiti delle dimensioni di un dinosauro, facevo i miei pochi passi a piedi. Come fanno a cantare con questo freddo? mi chiedevo. Ma che si cantano? Poi ho scoperto che anche Luciano canticchia quando cerchiamo di avanzare sferzati dal vento polare e allora mi dico, forse la ragione per cui i volatili se la facevano a squarciagola anche in pieno inverno è ‘cantaaa, che ti passa la pauuura!’ Del freddo ovviamente. Immagino che ora però non si tratti proprio di paura, cantano perché è quasi primavera anche a Calgary.

Per la prima volta ho visto un castoro scivolare nell’acqua con le paperelle, qualche giorno fa. Veloce, spingeva col muso un pezzo di tronco forse appena conquistato. O rubato. Sono pericolosissimi i castori per i pioppi del lungo fiume. Appena possono ne fanno man bassa; li rodono con quei denti viti di trapano e li distruggono. Per evitare che il parco si trasformi in prateria le guardie forestali hanno circondato i tronchi con delle reti metalliche fino ad un metro e mezzo da terra, così i castori non li triturano con le tenaglie. Ma ci sono sempre gli alberelli trascurati e quelli, non passa molto, li ritrovi – tronchi mangiucchiati – a galleggiare nei fiumi.

Oltre agli animali incontro talvolta qualche essere umano. Senzatetto per lo più, pur in una città ricchissima di gas e petrolio come questa, barboni che spingono un carrello pieno di bottiglie vuote raccattate nei bidoni della spazzatura. Le portano al riciclo, cinque centesimi l’una, forse racimolano un panino per la giornata. Ci scambiamo un timido sorriso: sono meno soli di tanta altra gente.

Il parco è stato insolitamente vivo di voci nei giorni passati. Appena c’è un po’ di caldo si riempie di gente come le foreste si coprono di funghi in autunno. Spuntano questi giovani – ed anche qualche vecchietto emaciato – ridono e si abbracciano. Corrono, in pantaloncini e a torso nudo i ragazzi, in short e reggiseno le ragazze ed io, con la mia sciarpona a doppio giro intorno al collo, li guardo meditabonda.

Anche i bar e i ristoranti all’aperto brulicano di clienti (alcune scollatissime) che s’imbevono di birra e coca cola. In un pub servono la birra in bicchieri lunghi mezzo metro. Che buffi quei calicioni lunghi che non riescono a stare nemmeno in piedi. Infatti li portano aggrappati ad un fermaglio di legno e ferro.

Muoio dalla voglia di averne uno tra le mani, come una calla o un giglio lunghissimo da accarezzare tra le dita, anche se io bevo birra solo quando mangio la pizza, e qui certamente di pizza nemmeno l’ombra.

Gratitudine e apprezzamento

Era l’argomento di conversazione con gli studenti del corso d’inglese per nuovi immigranti. Nel mio gruppo c’erano due cinesi, una polacca e una russa. Che cosa pensate, aveva suggerito l’insegnante, di questa abitudine canadese dove, mostrare gratitudine e apprezzamento è estremamente importante? Erano stati a visitare insieme un centro sportivo, con visita guidata offerta dal centro stesso, ed ora era d’obbligo per l’insegnante ringraziare con un biglietto, una lettera personale da parte di tutti.

Di queste lettere di ringraziamento è gremito il Canada. Dai dentisti, negli studi medici, nelle scuole, negli uffici, nei musei, in vari centri pubblici e privati si trovano alle pareti – dove fanno bella mostra di sé – lettere di individui che elencano riconoscenza per questo e per quello. Anche i negozi sono zeppi di ‘Thank you cards’, di tutti i tipi, fogge e colori.

La cinese del nord mi diceva che da loro tra parenti e amici stretti neppure la parola ‘grazie’ si usa. Le cose si fanno per gli altri perché si sentono nel cuore e gli altri con il cuore rispondono, con i gesti, ma senza dire grazie. Mi è tornata come in un flash una scena al mare in Italia. Un’amica romana al telefono, in una lunga conversazione con la figlia ancora a Vancouver. La ragazza ventenne le parla dei suoi problemi di vita e la mia amica cerca di consigliarla e consolarla da madre con un bel bagaglio di esperienza alle spalle. Quando il cellulare viene riposto in tasca l’amica mi racconta ‘Sai che mi ha detto Laura alla fine? Thank you mamma. Thank you… ma grazie di che cosa? Come fa a ringraziarmi se mi stanno a cuore i suoi problemi e cerco di aiutarla? È ovvio, no?’

All’epoca avevo soltanto sorriso, ma poi, quando mi è capitato con i miei figli (nati in Canada), sentirmi quel ‘grazie’ alla fine delle nostre parole mi ha portata in un’altra dimensione. Come se avessi fatto qualcosa di strano e non di naturale, logico e lapalissiano.

È vero che da quando vivo in Canada uso la parola ‘grazie’ molto più spesso, insieme a ‘ sorry, I’m sorry’. ‘Scusa’, ‘mi dispiace’… ma di che? Di essere al mondo? Non è che con l’abuso si svuoteranno di significato, come ‘how are you’ che non vuol dire più niente? O meglio che non ci si aspetta niente, che non si vuole sapere niente. Ed allora perché non dire soltanto ‘how are you’, senza intonazione interrogativa, ‘how are you’ puoi stare morendo di fame, ma la cosa non m’interessa più di tanto, puoi essere sul punto di rendere l’anima, ma sono problemi tuoi, tutto quello che m’interessa dirti è ‘come stai’, ma di come stai tu oggi non me ne importa assolutamente niente. Ed io oggi sto male. E non soltanto oggi sto male, anche domani e dopodomani e venerdì e sabato. Ed aggiungiamo pure domenica. Però mettiamoci un grosso punto qui perché non ne voglio sapere di stare male anche domani.

La cinese del nord mi diceva anche che da loro i biglietti di auguri e di ringraziamento non si usano affatto e quei pochi che ci sono in giro si danno ai bambini, non agli adulti.

Il Canada è pieno di bigliettini, anzi di bigliettoni di tutti i tipi (a parte quelli verdi). Esistono addirittura negozi specializzati, ma anche le cartolerie ne sono strapiene e perfino i supermercati dove, accanto alle bistecche, broccoli e gelati ci sono intere file dedicate ai compleanni, agli anniversari, alle condoglianze, alle congratulazioni ed alle ‘guarisci subito che ti aspettiamo’. E poi naturalmente gli auguri di compleanno si sotto dividono per: figlia, figlio, moglie, marito, genero, nuora, suocera, suocero, padre, madre, amico, boss, cane, gatto, serpente.

E i nemici, perché non preoccuparsi anche dei nemici?

Gli anniversari, oltre che differenziarsi per intestatari, sono anche in ordine cronologico, un anno dopo, cinque, dieci, venti, mille. Ed anche i compleanni hanno delle sottocategorie se si raggiungono tappe importanti come i venti, trenta, quaranta o cinquanta anni. Dopo i sessanta si finisce nella lista dei derelitti. Da vecchi nella società nordamericana si scompare nel silenzio.

È un’impresa alla Cristoforo Colombo trovare un bigliettino di auguri nudo e scarno, dove non ci sia scritto assolutamente niente; è di una comodità rincitrullente scegliere una frase qualsiasi ed aggiungere soltanto la firma. Diventa complicatissimo riuscire a trovare qualcosa che piaccia.

A Natale ovviamente nei negozi arrivano valanghe di cartoncini. Tutti se li mandano e li espongono sul cornicione del caminetto. Più ne hai e più vuol dire che gli amici ti pensano e ti vogliono bene. La tua bontà è misurata dal numero di biglietti di auguri. Quando organizzi feste arrivano col vino e un cartoncino. Che bisogno c’è? mi chiedevo le prime volte. Perché una busta grande così con dentro un biglietto altrettanto grande? Non possono dirmelo a voce buon natale e felice anno nuovo?

In avanti con gli anni li ho trovati comodi. Se ho tanta gente a cena e non riesco a notare chi mi ha portato chi, scoprire il cartoncino attaccato alla bottiglia mi rende saggia e previdente. Mi fa evitare che, una volta invitata dagli amici, finisca col portare a casa loro proprio la bottiglia che hanno regalato a me. Al solito, c’è sempre il lato positivo nelle cose… se ci si ricorda di cercarlo e trovarlo.

Un’altra sfornata di buste e biglietti colorati avviene a San Valentino. Tra bambini, adolescenti, giovani, adulti, fidanzati, sposati, compagnati. All’asilo comunque non me li aspettavo proprio e invece, i primi anni che i miei figli erano fuori casa, eccoli tornare con valanghe di lettere di amicizia e di affetto. Che loro ricevevano a disagio e un po’ sconfitti. Perché non gliel’aveva detto la mamma che era San Valentino e dovevano preparare frasi di riconoscenza, gratitudine e amicizia per tutta la classe? E che ne sapevo io? San Valentino per me era cominciato a 18 anni e finito a 20. Chi se ne ricordava più? Ma qui, oltre a thank you e how are you c’è un abuso astruso e diffuso della parola love. Love per gli amici, conoscenti, figli, genitori, nonni, bisnonni e poi per tutta la gamma dei ‘dates’, boy-girl-friend, fiancé, moglie-marito, partner e compagno; love per le città, i campioni, gli sport, i monumenti. Insomma un love grande quanto l’universo, che non vuol dire più nulla, come l’how are you.

All’inizio ci credevo all’how are you e rispondevo da italiana del sud, con qualche particolare di un inaudito malanno che non interessava a nessuno. Ho imparato subito ed ho sostituito la lista con ‘fine, thank you’ fino a quel giorno che con la guancia gonfia come un otre mi recai dal dentista. L’infermiera mi fece sedere sulla famigerata sedia, mi osservò scandalizzata l’ascesso dilagante e poi cortese mi chiese ‘and how are you today?’

Fu quel ‘today’ ad ingannarmi, ad impappinarmi, a portarmi sulla cattiva strada. Fino ad allora nessuno aveva precisato ‘oggi, come stai oggi’, si erano limitati al ‘come stai’, quindi voleva dire che l’infermiera era stata sincera, voleva proprio sapere come stavo oggi… e cominciai… ‘una nottata terribile, non ho dormito per niente, questo dente è stato un orrore’. Lei, che alla parola ‘nottata’ aveva già girato la testa, quando sono arrivata a ‘dormito’ si è alzata e prima che articolassi ‘dente’ era fuori dalla porta. Sono rimasta come un carciofo strozzato. Ho giurato a me stessa che non ci sarei cascata mai più: pur se agonizzante, all’how are you avrei risposto ‘fine, thank you’. Fine, perché così dicevano tutti e solo così avrei dovuto rispondere anch’io.

L’occasione non si fece aspettare.

Ero a letto in preda a dolori atroci post partum, fisici e psicologici. Mi telefona un’amica. ‘How are you?’ Straziata dalle fitte rispondo: ‘Fine, thank, you.’ E lei mi propone di venire a trovarmi ed io le rispondo che non può perché sto soffrendo come una dannata. Ma mi avevi detto che stavi bene, si scusa… E poi è stato il mio turno di scusarmi, di dirle che stavo malissimo, che avevo mentito… Ma perché avevo mentito? insiste lei, non potevo dirle che stavo male?

Dio, com’è complicata la vita quando ci si mette!

Un’altra cosa tipica del Canada è salutarsi quando ci s’incontra sparsi al mare, nei parchi, in montagna, per le strade solitarie. Quando mia madre venne a trovarmi la prima volta, in una delle nostre passeggiate mattutine mi vide salutare un bel po’ di gente.

Sono tutti tuoi amici? mi chiese, però, ne conosci di gente!

Chi? Quelli là? No, no, non li ho mai visti prima.

E perché vi salutate?

Boh, si usa così.

Ah.

Si usa così, è simpatico, siamo in pochi, dirci ‘ciao’ ci fa sentire più vicini, meno estranei, più disponibili. Un sorriso che si apre, una mano che aiuta, uno sguardo che accompagna… non è il Canada il paese della pace?

Sugli ‘Exchanges and Returns’

I primi mesi in questo nuovo mondo, in occasione di una festa elegante per cui non avevo nulla da indossare, un’amica mi aveva suggerito, perché non ti vai a comprare un vestito nuovo? Lo metti per la serata e poi lo riporti… Cosa???!!! avevo esclamato scandalizzata…

Quante cose avrei imparato in seguito! Ovviamente per la serata importante mi arrabattai con quello che avevo, che data la semplicità locale, non era proprio da ultimi ranghi… ma poi, conquistai un dottorato nella policy dei returns and exchanges…

La prima volta, memorabile, risale al quarto o quinto anno dopo il mio arrivo a Vancouver. Mi trovavo vicino all’asilo di mio figlio, lontanissimo da casa. Lo accompagnavo e poi mi trattenevo nei dintorni, non valeva la pena, durante le sue due ore di lezione, di guidare fino a casa e poi tornare a riprendere il bambino, perché avrei passato tutto il tempo in macchina.

Bighellonando capito in un supermercato e da un bancone all’altro arrivo a quello dei formaggi dove sono attratta da un bel pezzo di brie. Pago e soddisfatta lo porto a casa. Non lo mangiamo quella sera e nemmeno la successiva. Quando lo tiro fuori mi accorgo che su un lato si sta formando della muffa. Luciano mi suggerisce di toglierla e di mangiare il resto ma io, che ho sempre avuto mire di ottima scolara, ricordandomi della possibilità di riportare un prodotto insoddisfacente, ripongo il brie nel frigo e penso ad altro. Per due settimane intere, fino ad una mattina quando, scovandolo per caso nascosto in fondo al frigo, mi ricordo che avrei dovuto riportarlo, costa sei dollari e ottanta, perché buttarli, quei soldi?

E così dopo un totale di circa un mese dalla data d’acquisto, con il mio bravo formaggio ora più che ammuffito e la ricevuta di pagamento, un po’ titubante, entro nel negozio e mi avvicinato al bancone ‘attenzione alla clientela’. E lì comincio con una tiritera di scuse, abito lontano, non avevo tempo, il prodotto era già deteriorato, i’m sorry, i’m sorry and i’m sorry. E la commessa, con il sorriso largo come una montagna, oh no, non si preoccupi, ha fatto benissimo! Si prende il malloppo, riempie un modulo, con l’altoparlante chiama il manager, oh Dio, vuoi vedere che adesso devo ricominciare tutta la mia storia? No, no, lui arriva con un sorriso ancora più grande, firma la ricevuta, me la dà e si protrae in profonde scuse. Vada dalla cassiera, mi dice, e si faccia rimborsare.

Perplessa mi muovo a passi esitanti, memore il corpo delle urla del segaligno della mia infanzia quando gli riportavo mercanzia non desiderata. Mia zia mi mandava spesso da lui a comprare cerniere, filo e bottoni e talvolta se non li trovava di suo gusto, senza tante cerimonie mi diceva di riportarli al negoziante. Lui, magro, lungo, grigio e col cappello in testa, sembrava di guardia alla porta del negozio. Appena mi vedeva arrivare con la testa bassa e che strascicavo i piedi a fatica perché volevo andarmene in tutt’altra direzione, cominciava a sbraitare e ad inveire come se volesse picchiarmi. Più mi avvicinavo e più le urla si intensificavano, non solo, mi faceva ripetere tante volte perché a mia zia quella cerniera non era piaciuta, perché l’avevo presa prima di tutto, perché gliela riportavo, che cosa c’era che non andava!!! Mamma mia che incubo! Evitavo di passare davanti alla merceria anche mesi dopo il riportamento, anche in compagnia di adulti, anche correndo, e mi obbligavo a lunghe deviazioni pur di non intravvedere quel castigatore.

Non è che poi con gli anni la situazione sia migliorata. Ebbi un altro persecutore durante l’adolescenza, un barbiere che tagliava meravigliosamente i capelli anche alle donne; le amiche andavano là, il paese era piccolo, c’era penuria di scelta. Insomma ci finii presto pure io ed essendo il barbiere l’unico – o uno dei pochi – a vendere prodotti cosmetici e vivendo da sedicenne uno dei periodi di più bassa marea della mia vita, finii, con le poche lire che avevo, col farmi convincere a comprare ora un fondotinta, ora un rossetto, ora un orribile e puzzolente profumo. Il barbiere, fascinoso come un oratore quando doveva appiopparti un prodotto, diventava una tigre assatanata se ti vedeva spuntare nel negozio il giorno dopo la vendita, o anche un’ora dopo. Anche lui aspettava al varco – ma che non avevano mai nulla da fare questi usurai del mio paese d’infanzia? – che cosa c’è, non ti piacciono i capelli? urlava già facinoroso. No, non è per i capelli, quelli vanno bene (e lui lo sapeva benissimo)… è che… sì… insomma… questa pinzetta forse… non è che non sia buona… ma vede… io… sì… no… insomma quegli occhi mi brutalizzavano ed arrossivo, sbiancavo, m’impappinavo ed alla fine o mi riportavo la pinzetta sdentata a casa, o, se lui me la cambiava era per affibbiarmene una ancora più malandata, oppure m’invitava a scendere nel suo bugigattolo – ogni scala una caduta a precipizio verso il boia – e una volta a tiro nel sottoscala, me ne urlava di tutti i colori (rosso per lui e nero per me) e mi stritolava con le parole.

Ogni volta giuravo solennemente a me stessa che non ci sarei tornata mai più, poi però, dopo mesi di struggimento perché l’altra parrucchiera del paese mi aveva talmente rovinata da rendermi una rapa spelacchiata, finivo col ritornarci… e il barbiere dolce come il miele ed io a ricascarci.

Adesso che ci penso, tra i commercianti di quel tempo, ce n’erano solo due che non mi facevano paura, uno era un piccoletto tornato dall’America, gentilissimo con tutti, e l’altro, anzi gli altri, una coppia di fratelli proprietari di un negozio di ferramenta. Avevano l’ardire di sorridere se tu gli riportavi qualcosa che non andava! Inaudito, ma sempre folla soddisfatta nel loro negozio. Sono morti ora, come il segaligno e il barbiere, come tanti altri. Nei loro locali sfornano pizze e gelati industriali ai turisti.

Ma torniamo al Canada, dopo questa lunga divagazione dell’Italia del dopoguerra.

Titubante e un po’ reticente, con nelle orecchie ancora, immagino, le grida di rabbia degli esercenti del passato, mi avvicino ad una cassiera e le dò il modulo che mi hanno appena consegnato, senza nemmeno sbirciarlo e lei, sorridendo – sì, pure lei sorride – lo guarda e mi rimborsa… 13 dollari e sessanta! No, non è possibile. È sicura della somma? le chiedo. Certo, risponde sorridendo (ancora!). Non ci capisco più niente, c’è qualcosa che non va, qualcuno deve essersi sbagliato. In preda all’ansia mi inoltro nei corridoi sconfinati del supermercato, ma ritrovo subito il manager. Guardi che si è sbagliato, gli dico (sorridendo anch’io… e giacché ci siamo facciamo come gli altri!), il formaggio che le ho portato indietro costava sei dollari e ottanta centesimi e le me ne ha rimborsati 13 e sessanta… Ma è la nostra policy!, mi risponde con un sorriso largo come un continente, se il cliente non è soddisfatto e ci riporta qualcosa, noi rimborsiamo restituendo il doppio di quanto hanno pagato! Cosa???!!! Non svengo perché non me lo posso permettere, è quasi l’ora di andare a riprendere mio figlio all’asilo, ma non vedo l’ora di parlarne con qualcuno, mio marito, mio fratello, tutti gli amici che vengono dalla mia stessa infanzia popolata dai Mangiafuoco.

Ovviamente tante ancora me ne sono capitate in seguito, ma rammentiamo qui solo le più salienti. Un’anguria che io stessa avevo scelto (la frutta e la verdura la puoi toccare e ritoccare, prendere, schiacciare, rimettere giù, insomma, o è di plastica e quindi indistruttibile o mi chiedo come facciano i commercianti a sopravvivere con tanti clienti maldestri e manoni), portata a casa e tagliata, si scopre bianca ed emaciata. Luciano mi prende in giro e mi dice di lasciar perdere, io, testarda, rimetto insieme le due metà e ritorno dal fruttivendolo. Gli mostro l’anguria, avendo l’accortezza di aspettare che il negozio sia semivuoto e gli dico che è quasi immangiabile e lui, senza scomporsi più di tanto anzi, con un bel po’ di sorriso, la prende dalle mie mani, me ne sceglie un’altra che taglia lì all’istante per accertarsi che sia buona, mi chiede se mi va bene, sorrido assentendo, me la dà, ne sceglie ancora una e mi regala pure l’altra dicendo che è per ricompensarmi del fastidio che mi sono presa avendo dovuto riportare la prima anguria. Incredula mi carico delle due angurie, incredula guido verso casa, ed ancora incredula racconto la storia a figli, familiari, amici e conoscenti.

Poi ci fu l’acquisto del tavolino da salotto da un antiquario, di stile giapponese e che ci azzeccava come una patata a colazione con le mie poltrone moderne. Ovviamente me ne accorsi solo una volta portato a casa e dai a guardarlo con spirito d’insopportazione fino ad un giorno quando un’amica (italiana e ancora meno di me al corrente dei costumi locali) mi suggerì di tornare dall’antiquaria e chiederle se per caso accettava di tenermi lì il tavolino nella speranza che un cliente lo comprasse. L’antiquaria non si fece affatto pregare, se lo prese e nemmeno due settimane dopo mi restituì l’intera somma. Col risultato tuttavia che rimasi vent’anni senza tavolino, tutti mi sembravano da museo dell’orrore fino a quando, col supporto dell’ingegnere di casa ne progettai uno che aiutammo a realizzare poggiato su pietre.

Di capi di abbigliamento ormai non ne compro più senza riportarli indietro non so quante volte e in tempi sempre più stretti. Ci manca solo che paghi e non appena terminata la transazione io dica alla commessa, senta, questa gonna non mi va bene, preferisco restituirla. Lo so, lo so che prima o poi arriverò anche a questo! Ma tre anni fa un’altra beffa (ma quale beffa!) del destino.

Acquisto un tailleur e una canotta di seta color crema da una catena di negozi super-eleganti, ma a prezzi super-scontati. Indosso la canotta un paio di volte e ci va su una macchiolina visibile solo ai miei occhi da miope super meticolosa. La lavo, ma non in lavanderia come dicono le istruzioni, bensì a casa, con sapone neutro e poi la metto ad asciugare al sole in terrazza. Quando rientro a sera inoltrata e ritiro la canotta dal balcone scopro che il sole l’ha tinteggiata di strisce gialle e marroni. Inorridisco, è diventata uno straccio immettibile. E mo’ come faccio? Anche scontata, costava, e poi era carina! Ed io l’ho rovinata! Per sempre, per non spendere quei quattro dollari di lavanderia! Non riesco a rassegnarmi, urge fare qualcosa. Luciano mi sconsiglia qualsiasi movimento. Decido – che novità – di fare di testa mia.

Avvolgo la canotta impiastricciata nella carta velina del negozio, la adagio nella loro busta intestata e, meditabonda, vado al centro commerciale e cerco la commessa che me l’ha venduta. Lì, nel silenzio che segue – mio, perché lei è tutta cordiale ed affabile – svolgo con delicatezza quel capo inservibile e le spiego l’accaduto. Ovviamente devo confessare che non ho seguito le istruzioni e che l’ho lavata a mano, non solo, l’ho perfino dimenticata al sole – ma questo è secondario. Lei mi ascolta bonaria e condiscendente e poi mi chiede con estrema cordialità, vuole che le restituisca i soldi o che ne cerchi un’altra simile negli altri negozi che abbiamo a Toronto e Montreal? Io, io devo pensarci prima di rispondere perché, prima di tutto non so nemmeno con quale coraggio sia arrivata fin qua dal momento che l’errore è stato soltanto mio, ma poi, sentirmi proporre un’alternativa alla catastrofe provocata dalla mia insulsaggine… no… questo è troppo. Rispondo che la canotta mi piace, se possibile ne gradirei una simile. E da lì ricerche, scuse, affanni (da parte loro) e infine il trionfo. Ne hanno trovata una in Québec, arriverà nel giro di una settimana.

In realtà giunge in anticipo ed è perfetta come l’altra prima dell’acqua e del sole.

È d’uopo sottolineare che la vita un pochino si vendica e che in seguito, pur avendo rispettato le istruzioni di lavaggio alla lettera, anche la seconda canotta fece una brutta fine, allungandosi a dismisura e sformandosi irragionevolmente.

Poi ci fu l’acquisto del frullatore e i quattro in cui lo provai, per poi riportarlo indietro insoddisfatta, sotto gli sguardi sbalorditi di mia cugina siciliana in vacanza in Canada che continuò a non credere alla prassi di ‘cliente insoddisfatto, cliente rimborsato’ nemmeno quando constatò con i suoi occhi che denaro vero mi restituivano, senza neppure chiedermi perché riportavo l’oggetto comprato. È vero, si è viziati in questo paese, ma tutto va bene fin quando non se ne approfitta, fin quando si è sinceri, fin quando si prova fiducia e non diffidenza e sospetto. Il cliente, naturalmente, vive in una specie di limbo rosa e pastellato. Però poi forse, nella certezza che può riportare tutto, finisce col comprare più del necessario.

Una volta che ero in viaggio a New York con la famiglia, convinsi la figlia diciottenne ancora in fase di digestione di tutti i musei che le avevo propinato quando piccola e innocente la portavo in giro per il mondo, di venire a vedere con me almeno un museo, uno soltanto, il MOMA, il Museo di Arte Moderna che l’avrebbe ripagata delle sofferenze passate. Io lo ricordavo come fantastrabilioso. Ci andammo in tre e la rampolla accettò, convinta anche dal papà. Beh, almeno per me, fu una delusione tremenda e in più, un piano intero del museo era chiuso. In preda ad aspettative sconfitte e deturpate confessai alla famiglia che quasi quasi andavo a protestare. Mio marito, ben al corrente di cosa sono quando passo all’attacco, decide di scomparire e mi annunzia che mi aspetterà fuori da qualche parte, mia figlia, curiosa, si semi nasconde in un angolo ad osservare l’evolversi delle mie rimostranze. Vado in biglietteria, sono veramente scoraggiata racconto, sono venuta da Vancouver fin qua, ho convinto mia figlia a venire al MOMA descrivendolo come uno dei musei più interessanti d’America e che cosa trovo? Mostre permanenti e temporanee che ho visto e potrei vedere dappertutto nel mondo, perfino… in Canada! L’impiegato mi ascolta imperterrito e senza spostare un muscolo del viso. Vuole essere rimborsata? mi chiede. Se è possibile… azzardo. E lui, camminando, ma senza muovere i muscoli, prende un foglio, me lo dà con una penna, mi chiede di scrivere una lettera di lamentele, apre il cassetto, raccoglie trentasei dollari (costo di 2 biglietti per adulti ed uno per studenti) e me li porge. Finisco di scrivere, firmo, aggiungo il mio indirizzo (come suggerito dal muscolo immobile) e, vittoriosa come l’Europa che finalmente gliel’ha fatta agli americani, sventolando i dollaroni scoppio a ridere con mia figlia e mi pomponeggio con mio marito.

Accadde a luglio.

A settembre, al ritorno dalle vacanze cosa trovo nella posta? Un bustone proveniente dal MOMA. Una lunga lettera di scuse, una pagina e mezza per spiegarmi come stessero restaurando il museo, sì alcune mostre erano chiuse, sì avevo ragione e sì, mi rimandano un assegno di 36 dollari per rimborsarmi di una visita non proprio gradita! Evidentemente lo scrivano non sapeva che già il cassiere aveva provveduto due mesi prima. E così dovetti scrivere un’altra lettera per rinviare l’assegno e spiegare l’accaduto. Uffa, quanto diventano laboriosi certi avvenimenti!

Comunque sempre durante quella visita a New York e una delle passeggiate al Central Park, mi viene una di quelle pipì furibonde. Il museo Metropolitan è a due passi, cerco un bagno lì ma no, il guardiano non mi lascia entrare, devo prima fare il biglietto… che costa undici o dodici dollari. Per una pipì, anche impellente, mi sembra proprio troppo. Vado alla carica dal cassiere, lo prego e lui mi dice che purtroppo quelle sono le regole, ho bisogno di un biglietto. Sì, ma dodici dollari! protesto. Ma no, non ha bisogno di pagare dodici dollari, mi dice, non ha letto che sul cartello, in piccolo, c’è scritto che quella somma è ‘suggested donation’, che in realtà può pagare quello che vuole? Anche 25 centesimi? azzardo. Anche venticinque centesimi, risponde.

E così, euforica, corro da mia figlia che nel frattempo, stufa dei miei mercanteggiamenti si è seduta su un gradino dell’ingresso. Le comunico la notizia, la convinco, la straconvinco ad entrare al museo, dai anche se ci stiamo solo dieci minuti, dai almeno la collezione egiziana, dai scappiamo appena non ce la fai più, e dai e dai e dai, fino a quando lei si alza, mi segue, e sentendomi magnanima come una mecenate, dò un dollaro al cassiere e gli dico: due biglietti per favore, poi, con l’incedere di una regina, corro al bagno.

Il Metropolitan si rivelò, ovviamente, molto più interessante del MOMA (a parte i visitatori stessi, in coda per tre ore per vedere i vestiti ed i gioielli di Jacqueline Kennedy) e rimanemmo lì, tra una sala e l’altra, pur se esauste, più di due ore.

 

 

Se d’estate torno al paesino del sud in Italia mi diverto a raccontare agli amici le mie avventure nordamericane, tra una bibita ed un gelato al bar la sera. E loro rimbalzano con le proprie disavventure dai mercanti italiani. Ricordo quella di una cassetta di birra riportata perché l’acquirente si era accorto che la data di scadenza era passata da un pezzo. Sembra che il venditore abbia consolato lo sfortunato cliente dicendogli di non preoccuparsi, che la birra era come il vino, invecchiando migliorava… e buonanotte e tanti auguri.

Anche mio figlio ne aveva un paio da riferire dopo un viaggio di un mese per il lungo della penisola. Era con due amiche canadesi, ma era l’unico che parlava italiano e così dovette sorbirsi la noia degli impiegati all’ufficio informazioni che lo guardavano e lo trattavano come se loro lì fossero statue dell’eterno e lui con le sue domande venisse a rompere la loro immobilità. E poi la storia del bigliettaio degli Uffizi a Firenze, che non gli fece il biglietto da studente perché lui aveva dimenticato la tessera all’ostello e quindi non gli credette. Quello che capitò fu che subito dopo, due ragazze americane ebbero allo sportello lo stesso problema, si dichiararono (in inglese) studentesse, ma non avevano nessuna tessera da mostrare. Il bigliettaio, magnanime e comprensivo, sorrise ed accettò che pagassero la tariffa per studenti. Ed allora, mio figlio indignato, che per caso aveva seguito tutta la conversazione, fece le sue rimostranze all’impiegato, il quale pacifico rispose, ma quelle parlavano inglese, ed anch’io parlo inglese ribatté mio figlio con perfetto accento americano (nato e cresciuto in terra canadese) e il cassiere di rimando, beh, adesso non posso farci niente.

Da farsi venire un colpo, o fargli venire un colpo piuttosto, dal momento che chi ci rimetteva era uno studente con pochi soldi in tasca.

Inviti a cena

La prima volta che feci un invito a cena a Vancouver era per un collega di mio marito con la moglie.

Alla maniera italiana, o piuttosto come mi avevano abituato in famiglia, cucinai per dieci ed eravamo in quattro.

Loro arrivarono puntualissimi, anzi perfino con qualche minuto di anticipo, io avevo appena finito di imbellettarmi dopo aver apparecchiato, pulito, corso ed ansimato tutto il giorno. Non me li aspettavo così in orario, ero abituata ai ritardi accademici, ma mi adeguai in fretta.

Lui aveva tra le mani una confezione da sei birre, tenuta così da un lato, non incartata e con il prezzo ancora incollato sopra. Mentre con una mano si toglieva il cappotto io lo guardavo inorridita, temendo che le birre si rovesciassero sul pavimento e sporcassero parquet e tappeti. Ma che modi sono questi? mi dicevo in preda ad uno stato di trance profondo, non mi conosce per niente e mi porta sei birre, ma per chi mi ha presa, per un’ubriacona? E poi non sa che noi la birra la beviamo solo con la pizza? e io mica la pizza gli ho fatto! Me tapina, che ho lavorato tutto il giorno a preparare un carpaccio di zucchine e il soufflé al salmone e le verdure e il radicchio con la belga e perfino la mousse alla nocciola… ed il mio ospite che fa? pensa di andare in pizzeria…!

Beh, insomma, meno male che i pensieri non si leggono nella mente dell’altro, altrimenti chissà che guaio avrei combinato.

Luciano reagì subito con disinvoltura al mio impaccio catatonico, ringraziò per le birre, li fece accomodare e bene o male la serata cominciò e poi finì, tra un aperitivo, un Montepulciano e un digestivo alla melagrana.

Le birre non le bevemmo, finirono in cantina dove durarono suppergiù un anno.

Per la cena successiva eravamo in sei. Una coppia portò una crostata di mele. Che posso prepararti? dai, ti faccio qualcosa, mi viene molto bene il tortino di mele, va bene se te lo porto? aveva tanto insistito una delle mogli che alla fine cedetti ed accettai.

La crostata non era squisita, era dolcissima e sapeva di mix da supermercato. Quando, a fine serata, mi appresto ad adagiare la torta avanzata in uno dei miei piatti per liberare quello dell’amica e restituirglielo pulito lei, vedendomi con la paletta da dolci pronta ad intervenire, mi fa: ah, ti è piaciuta, vuoi che te ne lasci un poco? ecco, facciamo così, prenditene questa fetta!

No, no, e poi no!!! Arrossisco di stizza. Ma che paese è questo dove uno ti porta un dolce e poi si riporta indietro tutti gli avanzi? Non credo alla situazione e sono irritatissima con me stessa. E se l’amica ha pensato che volessi impossessarmi della sua torta senza nemmeno chiederglielo? Di una torta che poi, per quello che mi riguarda, nella spazzatura andrà a finire.

Ebbi bisogno di un bel po’ di tempo per digerire l’accaduto. Nel frattempo visitammo un paio di ristoranti, uno dalle porzioni super abbondanti che non avremmo mai potuto finire. Quando il cameriere venne a ritirare i piatti, vedendo tutti quegli avanzi ci fa: volete una ‘doggy bag’? No, no, non abbiamo un cane, mi affretto a rispondere sincera, non vogliamo la busta per il cane e lui, che non ci mette più di un secondo a capire che siamo stranieri e nuovi alle abitudini locali, affabile ci spiega che la doggy bag non è per il cane, ma è per noi. Può metterci in un piatto di polistirolo o in un contenitore tutto quell’agnello avanzato e possiamo portarcelo a casa per mangiarcelo quando vogliamo.

In quella prima occasione ebbi un’altra reazione da svenimento, in seguito capii l’utilità della prassi. Qualche volta accettai di portarmi gli avanzi a casa, ma finii per buttarli – non riesco a capire come un piatto che sa di squisito al ristorante, assaggiato l’indomani a casa, abbia l’aspetto e il sapore latrinoso – poi comunque, conoscendo in anticipo i risultati, persi l’abitudine della doggy bag.

Uno dei primi Natali in Canada la ditta per cui lavorava Luciano mandò una circolare agli impiegati, chiedendo se preferissero come regalo natalizio un tacchino o venticinque dollari. Scegliemmo il tacchino che ci sarebbe stato consegnato, ci spiegarono, il ventidue dicembre a casa.

Ed il ventidue dicembre di pomeriggio sento suonare il campanello, vado ad aprire e trovo un giovane in divisa da supermercato alimentare, un cappello rosso in testa ed un pacco enorme ai piedi: Ma’am, here’s your turkey. Merry Christmas! e scompare nel furgoncino.

Ecco il suo tacchino, signora! Il mio tacchino??? Ma in quella scatola c’entra un bisonte! Cerco di sollevare il paccone, è pesantissimo e gelato. Con un’immane forza di volontà lo trascino in cucina, apro in preda allo spavento e trovo, compresso sottovuoto nella plastica, un tacchino congelato dalle dimensioni di un dinosauro. Non ho i sali, non posso svenire, non ho nemmeno qualcuno che mi raccolga perché Luciano è in ufficio.

Mamma mia!!! e che ci facciamo con questo bestione? sono le prime parole che lui riesce ad articolare quando rientra, dopo un lungo periodo di sbalordimento. Il problema non è soltanto che cosa farci, è dove metterlo, in quale teglia, su quale ripiano del frigo, bisogna liberarne almeno due, anzi tre, sfilarne due ed incastrare il tacchino. Ma come ti è venuto in mente di ordinare il tacchino, mi fa lui. E che ne sapevo io che ci portavano un bufalo! Ma ti piace poi? Sì, l’ho mangiato qualche volta, ma non mi ricordo queste dimensioni smisurate. Ma chi ce l’ha fatto fare…

E questo solo per cominciare, perché poi Luciano passò tutta l’antivigilia di Natale a tagliare il tacchino ed io tutta la vigilia a cucinarlo e tutti e due tutto il mese di gennaio a mangiarlo. Ci si nutriva di tacchino, si parlava di tacchino, lo si sognava perfino di notte il tacchino, vivendo nel terrore di diventare stupidi come tacchini. (Ma è poi vero che sono stupidi?) Fu in quell’occasione credo, per liberarmi della provvista di tacchino fino alla quaresima che decisi di organizzare una grande festa con un bel numero di invitati, una ventina se ricordo bene, tutti seduti intorno ad una gran tavolata. Cucinai per tre giorni, mica potevo servire tacchino per antipasto, primo e dessert? ero stanchissima, ma felice. E poi anche la stanchezza mi passò d’un colpo quando mi accorsi, ad operazione ormai ultimata, che mentre io chiacchieravo animatamente nel mio gruppo di donne (non so se raccontando ancora la storia del tacchino), uno degli ospiti si era messo a lavare tutti i piatti, posate e tegami! Lui lavava, la moglie asciugava e metteva a posto.

Quando li scoprii, alla mia maniera mi diedi a rimostranze clamorose, ma loro continuarono ed a sera inoltrata, quando anche l’ultimo invitato se ne andò, che piacere provai nell’andare in cucina e trovare tutto perfettamente a posto! Mi rimaneva soltanto da mettere negli armadietti quello che loro due non sapevano dove riporre.

Ma Luciano, te l’immagini una cosa del genere in Italia? Uno scienziato, ospite in casa tua che tranquillo se ne va a ripulirti la cucina? Che bello, però il Canada!… a parte i tacchini…

Non so se fu grazie a quella cena che poi ebbi la nomea, tra amici e conoscenti, di cuoca esperta e perfetta. Io che non avevo mai cucinato o quasi fino alla veneranda età di ventotto anni e che avevo passato i primi anni di vita da sola o in coppia, a propinare a me stessa o a noi due, insalate di tutti i tipi e formaggi di tutte le fogge e sapori, oltre a mandorle e semi vari e yogurt dal pallore inverosimile!

Comunque anche questa è la terra canadese. Un paese dove i giovani e gli adulti guardavano scioccati e perplessi mia madre passare tre ore la domenica mattina a fare le orecchiette, o mia suocera cominciare a pensare al pranzo e alla cena da quando si levava all’alba. Come è possibile dedicare tanto tempo alla cucina? mi chiedeva costernata la babysitter di mio figlio, quando il tutto, poi viene consumato in meno di un’ora? A casa mia si usano scatolette e surgelati, raccontava lei, certo, non c’è paragone con quello che mangio qui, però, vale la pena? Le rispondevo che fare i ravioli per mia suocera e allineare le orecchiette una identica all’altra, una a fianco all’altra, per mia madre, era forse una perfetta forma di meditazione…!

Non fui la sola, comunque, a conquistarmi la fama di cuoca provetta. La corona toccò anche all’amica romana di cui sopra, quella del thank you della figlia. Pare che, da schiappa condannata sulle tavole italiane, diventò in pochi mesi una preparatrice graziosissima di gnocchi alla romana. Sembra, mi raccontava, che sapesse fare solo quelli e nemmeno tanto bene – che propinasse sempre quelli agli ospiti in tutte le salse e colori e che, immancabilmente, ad ogni tavolata, tutte le bocche (canadesi, non osava invitare quelle dei connazionali) s’innalzassero al cielo in visibilio dopo averne assaggiato soltanto uno! Come si sa, tutto è relativo a questo mondo, e il detto viene da un mondo di paese più o meno uguale, dove tutti parlavano la stessa lingua, mangiavano le stesse cose e si vestivano più o meno uguali. Immaginiamo adesso la relatività in questa nazione, dove si esce di casa e solo una strada più in là s’incontrano bengalesi in sari, sikh con la barba e col turbante, musulmane in burka, giapponesi in kimono e cinesi col giacchettino alla Mao Tze Tung. E questi, come s’intuisce, sono solo gli aspetti più appariscenti…

Ma andiamo anche a visitare le tavole degli amici.

Una delle cene più carine fu a casa di amici cinesi, ci andammo in sei, noi due, i figli e le nonne. La prima sorpresa fu il doversi togliere le scarpe. Per le nonne era un fatto inconcepibile… mi sento come nuda, mi bisbigliò all’orecchio mia madre, è come se mi fossi alzata di notte per andare a fare pipì e nel buio non riuscissi a trovare nemmeno le pantofole, confessò mia suocera sorridendo birichina. Evitammo di tradurre i commenti ai nostri amici, o meglio il contenuto che arrivò in inglese fu, che bella casa, che bel quadro vicino alla finestra…!

Pur se a piedi nudi, mangiammo da scoppiare quella sera. Non so quante portate, nove, mi confermò mio figlio, sembra che per le abitudini cinesi sia d’uopo preparare tanti piatti  per quanti sono i commensali. Ma chissà se è vero o se sono invenzioni di ragazzi.

Comunque tutto era squisitamente saporito, preparato all’istante, col risultato che il marito della mia amica, professore universitario arrivato da poco dal nord della Cina, passò l’intera serata in cucina a sfornare leccornia su leccornia. Pare che se preparato in anticipo il cibo si rovini – e ci credo! però fare da cuoco per due ore mentre gli ospiti sono di là non è mica divertente…

E adesso mi viene in mente quella volta che fui io ad invitarli a casa mia e che, sapendo benissimo che loro preferivano del pesce vivo cotto all’istante andai fino a Chinatown, da un negozio all’altro e finalmente trovai dei gamberi d’allevamento ancora sgambettanti. Il commesso me li mise in due buste, una dentro l’altra; io dovetti, prima assistere all’agonia di quegli esseri viventi che, presentendo di andare verso sicura morte si agitavano come forsennati – e per paura sorressi la busta col braccio teso, lontano dal corpo – e poi sorbirmi tutti i loro istinti di sopravvivenza che continuavano a lottare sul sedile della macchina mentre agitata guidavo verso casa.

Non ebbi più il coraggio per anni di toccare un gambero dopo quell’episodio, mi facevano troppo pena, così come non ho più mangiato granchi dopo quel fattaccio, il nostro primo anno in Canadà quando, per sorprendere degli amici francesi appena arrivati da Lione, proponemmo loro (e propinammo) granchi vivi.

Meno male che ne comprammo solo uno; il pescivendolo ci raccomandò di fare attenzione perché si trattava di animali forti. Ma noi, vedendoli già come cibi, non prestammo attenzione alle sue parole ed una volta a casa, preparata l’acqua bollente, con nonchalance vi buttammo il granchio vivo che invece con altrettanta nonchalance se la squagliò ed andò a finire sul pavimento della cucina dove seminò il terrore tra gli astanti. Le donne se ne scapparono urlando, il sesso forte corse a prendere le pinze da camino, i bambini si strozzarono dal divertimento e finalmente, dopo corse e tentativi da fumetti il famigerato crostaceo con le chele a tenaglia, finì nel calderone. Solo il francese ebbe voglia di mangiarlo, noi eravamo traumatizzati e i bambini, naturalmente sentirono pena e malinconia.

Diverse volte siamo stati invitati a potlucks. C’era mia madre qui la prima volta che ci capitò e l’amica che stava organizzando la festa di compleanno per la figlia pensò bene di informarci. Ognuno prepara un piatto, puoi scegliere quello che vuoi, oppure, se preferisci, posso dirti io di che cosa ho bisogno, mi spiegava. Potresti prepararmi un piatto di verdure al forno, per esempio, o, se preferisci, un’insalata di pasta…

Mia madre ascoltava (in traduzione) con gli occhi sgranati, non riusciva a capacitarsi, ma come, c’invitavano a cena e noi dovevamo portare da mangiare?

Se all’inizio l’evento mi sembrava strano poi ci feci l’abitudine, lo trovai comodo e interessante: vivendo in un paese così cosmopolita capitava spesso che gli invitati provenissero da almeno tre continenti, ed allora ogni piatto risultava esotico ed appetitoso. Sì, questo è un altro aspetto affascinante del Canada. È facile che a casa mia o da amici ci siano cinesi, giapponesi, coreani, marocchini, indiani, sudanesi, europei di tutti i tipi, insomma un grande minestrone, dove su venti persone forse solo due o tre sono nate in Canada. Grazie a questo è possibile trovare prodotti provenienti da tutto il mondo e ristoranti con cucina veramente internazionale.

Un’amica arrivata da poco dalla Russia mi faceva notare, sai, il Canada è come un ospedale, noi emigriamo dai nostri paesi per problemi di guerra, politici, economici, veniamo qui come malati a guarire… e di solito guariamo.

Mi piace l’idea, ma preferisco l’immagine di un giardino da convalescenza, piuttosto che quella dell’ospedale!