Come passi il tempo a Calgary?

Oh Canada, my adoptive land.

I miei starnuti non amano la solitudine

Che fai a Calgary? Come passi il tempo lì? Le domande degli amici, ripetute e identiche, quotidiane e insistenti, mi hanno talmente assillata durante il rientro a Vancouver per le vacanze natalizie che più di una volta ho sentito il bisogno di sviare il discorso. Tutto inutile: loro, imperterriti e testardi come questa voglia di mangiare che non mi lascia requie, e per niente scoraggiati dai miei sospiri da meditazione d’alto bordo, si sono dati il turno a mo’ di strumenti musicali:

“Dai, tornatene qui, che fai in quella città di cowboys e petrolieri?”

“Tuo marito avrà molto da fare col lavoro, a Calgary starai sempre sola, almeno qui hai tanti amici.”

“Forza torna, che vuoi che succeda? Luciano può rientrare ogni fine settimana, l’ha già fatto in passato, e tu intanto sei nella tua casa e non ti metti sotto ghiaccio per tutti questi mesi invernali”.

Che buffo però, tutti ad offrirmi la stessa medicina nella medesima scatola sigillata, un po’ di variazione sul tono, ma nessuna novità. Eppure lo sanno bene che in questo momento non penso proprio di tornare a Vancouver. Non l’ho nemmeno presa in considerazione per un attimo quest’eventualità. Sola nella mia casa a due piani e col giardino immenso da curare? Sola sotto la pioggia tramortente invernale, autunnale, estiva primaverile ed anche di tutte le stagioni che non sono ancora state catalogate? Mai e poi mai! Nemmeno in compagnia di un esercito di mariti! O di amanti, che preferir si voglia. Anzi, il mio principio di autoaffermazione è ‘appena mi si presenta l’occasione fuggo da Vancouver’!

Calgary è venuta fuori a marzo, un lavoro interessante per Luciano e per me la possibilità di espatrio e ora, me la sta godendo proprio come un’amarena dolcissima e soda su un gelato alla panna questa Calgary denigrata e disprezzata! Pur tuttavia, ci sono gli amici rimasti sul Pacifico e i loro dubbi, le allusioni e insinuazioni che forse è tutta una clamorosa balla questo mio trovare la città degli stivaloni e dei lanciatori di lazo una gradevole sorpresa. “Un libro di fiabe inedito? Così ti sembrano quegli stradoni affogati sotto due metri di neve? Ma Luisa stai bene? Non è che ci stai inventando una mastodontica panzana? Sai, come la volpe che non può arrivare all’uva…”

Ecco qui, ho appena finito di parlare con Adriano. Dieci minuti per fargli capire che i fiocchi di neve qui mi fanno pensare ai chicchi di gelsi maturi, quelli bianchi e grondanti di succo dolcissimo che raccoglievamo dagli alberi nel paese natio a sud dello stivale. Ho potuto immaginare dal silenzio la sua reazione, e gli ho visto il doppio mento scendere incredulo fino al cuore per lo sgomento. Ha riattaccato nient’affatto convinto ed ora il telefono squilla ancora.

“Luisa, ma sei ancora lì?”

“Silvana… e perché ti preoccupi così tanto?”

“Ho sentito in televisione che la temperatura è scesa a meno venti da voi!”

“E allora?”

“Ma come fai a sopravvivere? Tu mica ci sei abituata. Hai sempre freddo!”

“Sì, però qui mi pare un freddo diverso… come ti devo dire? non è umido, non ti bagna le ossa e il midollo e gli organi volontari e involontari come quello di Vancouver. Per esempio in casa, non ho nemmeno bisogno di accendere sempre i termosifoni…”

“E beh, per forza, sei in un appartamento. Però finora non avete mai avuto meno venti. E che fai, pensi di uscire anche oggi?”

“Non penso. Mi sento un po’ di febbre addosso”

“E ci credo! Venti gradi di escursione termica in una notte! Riguardati, che poi sai quanto tempo ci vuole per riprendersi!”

Meno venti, dicono le previsioni, meno venticinque con il vento, commenta il radiocronista, ma la voglia di provare supera ogni moderazione. Mi sento come una bambinella curiosa. ‘Chissà che sentirò a questa temperatura, chissà come si respira lì fuori e come entra il freddo nel corpo!’ Per non trastullarmi nei chissà l’intero pomeriggio, esco. Un’atmosfera rarefatta che sembra fatta di ghiacciolini sospesi nel vuoto, pulviscoli di cristallo che come schegge appuntite vanno dritte al cuore. Una magia da mozzare il respiro, con nessuno nel parco, perfino le ombre delle betulle ritrose nell’adagiarsi sul ghiaccio immacolato, il sortilegio di un mondo nevoso… l’incanto, o forse un gelo tagliente come un veleno che reggo solo per qualche minuto. Torno a casa senza fiato, senza forza, senza energia di vita e mi rifugio a letto, dove piombo in un sonno profondo da cui mi risveglia la voce di Luciano nel buio della sera:

“Ma che fai a letto? Non ti senti bene?”

“Non so, mi sento floscia come un cuscino rotto, come se m’avessero bucata e dentro non c’è rimasto più niente. E mi fa male la gola.”

“Non sei mica uscita oggi…”. Con quel briciolo di volontà che m’è rimasta giro la testa verso il muro, mi viene fuori un sì che non ha la forza di affermarsi e Luciano per fortuna non sente, rimane nel dubbio. Devo essere in una specie di semi coma perché lui non solo mi cerca il termometro, ma me lo sistema sotto l’ascella. I minuti scorrono lenti come un fiume senza acqua… e infine eccolo il responso del mercurio: trentotto. Trentotto? Un febbrone per un’assuefatta ai trentasei quotidiani.

Dovevo immaginarlo. Altro che bambinella curiosa. Sono una scriteriata, una senza senno, una pazzoide sotto mentite spoglie salomoniche. Però, perché ora mi flagello? Non dice Siegel, quello psicologo ultra famoso americano, che dobbiamo essere i migliori amici di noi stessi, e che in ogni occasione, piacevole o stressante che sia – ma immagino solo stressante… infatti, quando si è nel piacere chi avrebbe interesse a soffermarsi e chiedersi come goderselo? – allora, non dice lui, apprezzatissimo, ammiratissimo scrittore, oratore e innovatore, che in siffatta situazione dobbiamo mantenerci COAL? (Che poi mi ricorda il carbone e quindi lo spazzacamino nero nero, ma mi fa anche pensare a cool, corrispondente in inglese del nostro strafigatissimo figo). COAL, acronimo di curiosity, openness, acceptance and love. Con queste immagini rincuoranti invio un timido cenno d’intesa alla impavida rivoluzionaria e ripiombo in un sonno tormentato. Da cui mi sveglio intirizzita di sudore e con la febbre a 39. Luciano è terrorizzato. Come sempre quando qualcuno si ammala e lui non riesce a risolvere l’equazione con la squadra e i logaritmi, cade in una depressione silenziosa e profonda. Non mangia, non sorride, non legge, non si concentra. È preoccupatissimo, ed ogni mezz’ora viene in camera in punta di piedi.

a – “Hai bisogno di niente?”

Sì, di un massaggio apocalittico, ma leggero come una piuma.

b – “Vuoi mangiare qualcosa?”

“Sì, una sogliola minuscola pescata stamattina. Ma che sia tenera, mi raccomando, non quegli oggetti non identificati che nei nostri primi anni in Canadà andavamo a pescare con Tarcisio. Il nostro caro coetaneo Tarcisio che, appena emigrato anche lui, andava a procurarsi la pancetta nel miglior negozio italiano nella speranza di accalappiare sogliole ghiottone e innocenti. Soltanto poche volte, nelle 88 escursioni sulle rocce allora incontaminate del Pacifico, riuscì a pescare qualche muto esemplare. Che fossero sogliole ci credeva soltanto lui, per noi ed un’altra coppia di amici, compagni nel duolo freddo e piovoso dell’attesa cui ci si sottoponeva per non abbandonare Tarcisio alla solitudine, si trattava di oggetti natanti non identificati, duri e satanici come le suole di scarponi montanari, o gelatinosi e stomachevoli, ombre di meduse ammalate. Non darmi le sogliole canadesi Luciano, quelle cose color ocra che quando mi azzardo a comprare avvicino prima al naso, perché meglio è che il puzzo mi tramortisca dal pescivendolo, piuttosto che dopo, nella mia cucina rosa e immacolata. Sai che voglio? Le sogliole che mio padre portava quand’ero bambina, che saltellavano ancora tra le mani di mia madre. No, non voglio nemmeno quelle, giacché ora mi farebbe senso vederle sgambettare e poi tramortite in padella. No, non voglio niente. Non insistere, non mi proporre nulla.”

“C’è qualcosa che posso fare per te?”

No, grazie Luciano.

Grazie no.

Non ora.

Le tre risposte vere, perché le altre le lascio al loro sventolio nella mente, questa mente che pur in un corpo ammalato, si sposta con la velocità di sempre.

Non dormo, ma mi sveglio e mi par di riaddormentarmi perché mi risveglio. Per fortuna mi sveglio e continuo con le veglie, notturne e diurne, interrotte solo da frammenti di sogni violenti.

La malattia ed il recupero sono lentissimi, non riesco nemmeno a parlare al telefono. Nella speranza di dare una spinta al sistema immunitario mi affanno a prendere di tutto, purché antroposofico, omeopatico o almeno naturopatico. Il sesto giorno mi sembra di averla spuntata e per festeggiare voglio accontentare questo bisogno sfrenato di muovermi, andar fuori, sentire. Esco all’aria aperta. Una scintilla di saggezza mi catapulta come una scheggia a casa. Dove mi accascio davanti al computer, con solo la forza di comunicare ad uno schermo. Inserisco gli indirizzi degli amici più cari ed inizio a scrivere:

Che fai a Calgary? Come passi il tempo lì? Molti di voi mi hanno chiesto mentre ero a Vancouver a Natale. Beh, se la domanda mi fosse rivolta oggi, risponderei: metà della giornata a vestirmi e metà a spogliarmi. E non lavoro per un albergo a luci rosse!

Sono stata ammalata per cinque giorni come un gatto (non ho visto né cani e né gatti ammalati, quindi per me fa lo stesso), ho tossito, ancora, come un gatto, di notte, di giorno, all’alba e al tramonto, ho ingurgitato più aglio di una strega che vuol stordire nemici e concorrenti, inghiottito 83 pillole di vitamina C, spremute di 24 limoni, 17 gocce grumose e carbonizzate di una propoli nera, vischiosa e incallita, ho dormito come me (e cioè pochissimo) e oggi ho deciso di uscire.

– 30 diceva il termometro e con il vento – 39! Ma un sole splendido e il cielo azzurro. Il sole ‘uno è’ mi sono detta, non è che quello di qua viene da un altro mondo e invece di scaldarti ti mummifica. Previdente come una madre ormai in pensione ho indossato: maglietta intima di lana a maniche lunghe, maglione di lana con collo alto, cachemire a girocollo, cardigan di superlana, gilet di fibra sintetica, giacca della stessa fibra, pellicciona di orso canadese, sciarpa di seta stretta intorno al dolcevita, sciarpa di cachemire al di sopra, bandana di materiale antivento e antitutto, cappello di lana, guanti di cachemire, guantoni di goretex. Dalla vita in giù? Mutande, mutandoni, pantaloni e per finire tuta superimbottita da sci alpino. Tre paia di calzettoni di lana e stivaloni da neve a meno quaranta. Dopo di che, impirata come un’astronauta, mi sono accorta che mi mancava un fazzoletto per il naso. E allora, togliti i camminamontagna, la pellicciona, i guantoni da box e ritorna in camera, prendi il fazzoletto, rimettiti gli attraversaghiaccio pesanti e ingombranti come due cannoni, perdi l’equilibrio, appoggiati alla libreria, fai cadere (lungi dalla tua volontà!) la tazza piena solo di (meno male!!!!) acqua, solo acqua, rimettiti i boxeriani, apri la porta con la sensazione-certezza di essere diventata l’armadio della camera da letto che se ne va a far prendere una boccata d’aria a tutti gli abiti, fai un passo chiedendoti, con la fronte aggrottata, se il tuo corpo riuscirà a portare a spasso un peso simile, sì, ci riesce, a fatica ma ci riesce, fai la prima rampa di scale e sei tutta sudata, ti togli i cappelli, i guanti, apri la pelliccia, arrivi giù, stai ansimando, i calzettoni spessi due centimetri che ti arrivano al ginocchio vorresti strapparteli di dosso, ti viene una caldana di quelle che non hai mai avuto durante la menopausa, ti fai forza, ti riabbottoni, ti ringuanti, ti rinsciarpi, ti rincappelli, apri il portone e “mamma mia fa veramente freddo!”

Ho camminato per sette metri, mi sono girata con tutto l’armamentario monumentale addosso, sono tornata indietro. Ho riaperto il portone, mi sono discappellata, disciarpata, dispellicciata, sono arrivata al secondo piano che per poco non mi prendeva un collasso. Gli interni qui hanno una temperatura media di 27 gradi, io, con tutto quello che avevo ancora addosso, raggiungevo i 90 gradi. Una volta su, dopo la fatica immane di sfilarmi le zampe d’elefante dai piedi, e la furia di liberarmi di calzoni, calzettoni, tute e maglioni, mi sono accasciata sul divano esausta.

Ho ripetuto l’esperimento all’una del pomeriggio. Ho camminato per duecento metri. Adesso ho bisogno di: un chiropratico che mi raddrizzi la colonna, un fisioterapista che mi rimetta in movimento le gambe, un podiatra che mi riformi i piedi, un massaggiatore che mi ridia i muscoli e poi di 27 gradi veri veri veri! E fuori e non dentro. Anzi, 30 sono ancora meglio.

E CHE NON MI SI CHIEDA PIÙ COME PASSO IL TEMPO A CALGARY!

Premo invio. Il messaggio scompare. Compare su schermi lontani, anche su quello di Laura che è in India e che mi risponde subito ringraziandomi della ventata di buonumore che le ho portato. In India, nel saporoso caldo di gennaio. Beata lei. Ah, se solo riuscissi a sentire il benessere di una bella spiaggia dell’Adriatico in un ferragosto assolato!

Tutti al mare!

Vai a capire perché, ogni qualvolta ritorno su questa spiaggia dell’Adriatico, il ritornello degli anni sessanta ‘tutti al maaare, tutti al maaare, a mostrar le chiappe chiaare!’ comincia a titillarmi le orecchie fino a risuonarmi nella testa e poco ci manca che mi scopra a sgambettarlo ai quattro venti. Anche se di venti a dir la verità oggi non si nota nemmeno l’ombra. E per fortuna che Eolo e la sua corte se ne sono andati in giro per l’oltretomba. Ci hanno così sbatacchiati negli ultimi tre giorni con una tramontana da bora di sabbia, che quasi quasi facevo le valigie e me ne tornavo a destinazione dopo nemmeno una settimana di vacanze. Oltre al rumore, bvu, bvu, bvu, persistente come i tarli nel comò di mia zia, di inizio novecento – grossi quanto un dito, mamma santa che ludibrio – era la sabbia negli occhi a tormentarmi, i granelli duri come marmo sotto la lingua, tra i denti, perfino intorno alla capsula che il dottor Bird mi ha appena cementato.

Anche i vicini d’ombrellone non è che se la siano spassata. Catafalco, che se ne sta immobile stoccafissato al sole dall’alba al tramonto, sembrava preda di una tarantola. Si alzava dalla sdraio per scrollarsi di dosso una patina di granellini ispidi e virulenti, si ricollocava e subito una folata di vento, vrrrumm, lo imbalsamava da cima a fondo. Alla fine se ne è scappato imprecando contro il bagnino.

Ieri il mio giornale è stato ridotto a brandelli e Strapontina, l’inquilina dell’ombrellone di davanti, quella che si siede sempre sull’orlo della sedia per far posto ai cinque figli in età prescolare, nell’aprire il portamonete per accontentare con una caramella al latte una delle bocche filiali in perenne posizione questuante, si è vista biglietti da 10 e 50 euro schizzare dalle dita come uccelli in libertà. “Vento ladro! Ladro come questo c… di governo ladro!” ha urlato il marito correndo con la pancia a saltelloni dietro alla refurtiva che, come nelle migliori vignette, si riposava conciliante solo quando nessuna mano era in vista. Credo che il signor ‘il lettino è mio e guai a chi me lo tocca’ (e mai permette ai figli di rubarglielo o allungarglisi accanto) se ne sia fatto di chilometri dietro ai biglietti rosa della moglie. È tornato in preda al collasso, con 30 euro tra le mani, il biglietto rosso da cinquanta rubatogli dal vento. O forse da quelli che hanno votato il governo ladro.

Si sono messi a discutere penosamente marito e moglie ed io mi sono vestita in fretta e mi sono allontanata. I litigi mi mettono sempre l’angoscia. Credo di aver lasciato un mezzo chilo di sabbia nella vasca da bagno di casa… e stamane ce n’era ancora tra le pieghe del cuscino. Invece oggi, che giorno stupendo ci regala madre natura!

Siamo scesi in spiaggia alle sette, taumaturgicamente presto per le mie abitudini, ma Luciano, che è arrivato stanotte, smaniava dall’andare a fare due passi nel silenzio mattutino. Che splendore il luccichio del sole su una superficie marina quasi immobile, che aria dolcissima! Camminiamo paghi della pienezza del momento e ad un tratto il mio lui sussurra: “Lo sai che sei veramente la più bella della spiaggia?” Ed io, sorridendogli, come una monachella al primo amore, gli lancio occhioni di riconoscenza e… e mi accorgo che anche lui sorride, in quella maniera sorniona di ragazzino che l’ha combinata grossa ma se anche che tu non lo punirai. Un lumicino di Natale mi si accende nel cervello, mi guardo intorno impanichita e realizzo che per tutta la lunghezza della spiaggia – un chilometro e quattrocento metri da roccia a roccia – e per tutta la sua larghezza – i caseggiati del lido, più diciotto file di ombrelloni, più lo spazio per il bagnino e la pista da ballo, più il bagnasciuga, più la distesa di mare azzurro-verde come gli occhi di mio padre – non c’è un solo essere umano. Nessuno, nemmeno i vecchietti con le insabbiature, nemmeno i netturbini comunali che pur qualche volta, per sbaglio, finiscono quaggiù. Su questa distesa vergine da umanità, ci siamo ora solo noi due e i gabbiani.

“Sì,” continua il mio disadorabile Luciano, come se non avessi capito, e per niente fulminato dal mio sguardo arsenicoso “non c’è nessun’altra donna sulla spiaggia e quindi tu sei sicuramente la più bella.” Della spiaggia. Del reame. Altroché. Vorrei essere la matrigna di Biancaneve per ritrovarmi tra le unghie da mezzo metro di smalto viola un veleno istantaneo. Ma poi la grinta bellicosa mi passa, l’aria è dolce come un torrone al gianduia, un casto marron glacé torinese. Vado a nuotare perché il mio corpo nell’acqua si annulla e l’azzurro intorno uno spiraglio di paradiso. Le braccia si muovono lente per sentire il respiro della natura: riverberi sull’acqua, bagliori di immensità.

Dovrei venire più spesso così presto al mare, è un godimento assoluto, e perfino il caffè che Luciano mi dà da sorseggiare ora che anche il bagnino ha abbandonato il suo letto nel capanno ed è dietro il bancone del bar ad armeggiare con un grande latte al vapore, si ferma sotto la lingua con sapore amico. Ecco che dovrei fare: bermi un caffettone ogni mattino, invece di ingurgitare acqua calda o al massimo spennellata da un leggero sapore di menta.

I primi clienti arrivano dinoccolandosi sugli infradito o in bilico sugli zoccoli di legno, e le briciole di cornetti si addensano come puntine di caldo sui tavoli di plastica immacolati. Un insonnolito dal ventre prominente afferra due bomboloni grondanti di crema e se li spappa prima che io abbia la faccia tosta di sollevare gli occhi dal giornale (che fingo di leggere) e rimproverarlo a cielo aperto. Però, santo cielo, con una pancia così. E allora, io non me lo sbaferei un bombolone? Non lo faccio solo perché poi me lo ritroverei tutta l’estate penzoloni dalle cosce. Lui se ne infischia, a me non resta che il sacrosanto dovere di ignorarlo. E ignorarlo subito devo perché Luciano è entrato in una di quelle discussioni politiche a mosca cieca con gli amici che come ciliegie mature arrivano man mano dai letti caldi della notte.

Basta coi vagiti di protesta, non rovinate la bellezza dell’ora.

Ci scambiamo articoli di giornali contrari e poi ci rifugiamo sotto i rispettivi ombrelloni, riservandoci di parlarne a ragion veduta. Giochi da mare, più stimolanti delle parole crociate. O almeno così ne siamo convinti noi e i nostri amici intellettualoidi.

Com’è tutta piena la spiaggia! In poco più di due ore bambini secchielli mamme salvagenti merendine padri sigarette cellulari nonne cappelli ombrelli fazzoletti per il naso vu cumprà e mercati delle pulci ambulanti hanno invaso quest’angolo di mondo da più bella del reame. Ora sì che ne avrei di contendenti! I seni della vicina costazzurrina sono due pallottole provocanti e Catafalco ha assunto la posizione seduta e statuaria da santi delle grotte che seguono con occhi segaligni i fedeli col ‘di dentro’ infedele.

Qui di ‘dentro’ non c’è rimasto più niente, ci sono invece tanti bei ‘di fuori’. Con i costumi da bagno sempre più ridotti a lacci da scarpe, siam tutti al maaare tutti al maaare, a mostrare le chiappe chiaaaare! Anzi abbronzatissime, passate alla tintura machiavellica, nemmeno un filino di pallido traspare. Qui siamo tutti visi tonificati, muscoli galoppanti, seni tenori e costumi spalancati alla felicità. Anche il sole si spaparanza talmente tanto da diventare invadente, persistente, insopportabile. Corro nell’acqua come fossi una maresuga e non sono nemmeno tanto al largo quando la vedo. Prendo il volo senza pinne né fucili e né occhiali, me la squaglio a tutta velocità verso la riva, ma lei è più veloce agguerrita tenace e mi colpisce al braccio. Avanzo senza respirare, ho un barlume d’ironia per rendermi conto che sto battendo il mio record personale di velocità acquifera. Adesso mi viene un infarto, oppure i polmoni mi scoppiano, o… mi lascio mordere bruciare sotterrare. È a venti centimetri da me. La seconda sferzata è sul dorso della mano.

“Ci sono meduse!” grido quando avvisto i primi bagnati che sentono una voce e vedono una palla umana sfrecciare alla Paperino verso la sabbia. La mano è gonfia da bombolone senza crema, il braccio è pieno di bollicine rosse e brucianti. Il bastoncino all’ammoniaca del bagnino è arido come una vagina secca, il mio l’ho lasciato in Canadà. I cubetti di ghiaccio che scivolano dalle mani placano momentaneamente la pelle inferocita, ma il gonfiore si alimenta da solo e il bruciore divora. Quante altre volte le meduse mi hanno sferzata? Da sette giorni di pena a poche ore di fastidio, ormai la storia la conosco a memoria. Le malaaguas le chiamano in spagnolo e già il nome descrive l’impatto.

“La pipì” mi sussurra nell’orecchio Luciano, “vai a fare la pipì e metticela sopra.”

“E dove la faccio la pipì, nella mano?”

“Ma su, dai, in una conchiglia, oppure ci facciamo prestare un secchiello.” In una conchiglia! Come se fossimo sul Pacifico, dove le vongole sono grandi quanto una mammella! Qui dopo cinque chilometri a piedi e con gli occhi incollati alla sabbia, si è fortunati se si trova una conchiglia intera di tre centimetri! E il secchiello… che idea balzana, poi, anche se lo lavassi con la varechina mi rimarrebbe sempre il dubbio di averci dimenticato una goccia di pipì, no, no. E intanto come faccio? Mi guardo intorno da Sherlock Holmes alla ricerca di indizi e… trovato! Un bicchiere di plastica del bar… verso cui corro come Robinson Crosue alla vista di una nave. Bicchiere alla mano il cesso è occupato e straoccupato; il veleno meduseo se la fa con euforia e l’avambraccio si prepara a sfidare a dimensione la coscia appesantita. Se il cacone non esce dal cesso giuro che mi calo giù questo pezzo di mutanda e la faccio qui la pipì, fuori dal cesso, giuro, giuro! Non esce. Ma la pipì sì, e sento con le caldane che dalla testa rimbalzano ai piedi scottanti di sabbia le prime gocce che fuoriescono dallo slip. Strafottenti come l’acqua che scappa dalla fontana di farina pronta per essere ammassata a pane; gagliarde, senza vergogna. Ho voglia di piangere. E piango, un’altra pipì fatta di goccioline leggere, legale solo perché esce dagli occhi. Piango perché ora mi sento l’epicentro di tutti i mali del mondo, e vedo Luciano arrivare.

“Ma non sei ancora entrata?”

“No.”

“Sei sicura che ci sia qualcuno dentro?”

“E allora perché la porta dovrebbe essere chiusa?”

“Busso?”

“No.”

“Perché?”

“Perché se fossi io lì dentro mi darebbe così fastidio sentir bussare.”

“Ma non possiamo stare qui ad arrostirci al sole.”

“Torna all’ombrellone, non preoccuparti.”

Se ne va, lui non sopporta il sole.

Il braccio è infuocato, la mia testa pure. Sto per cedere, quando la porta del paradiso si apre e una cosina striminzita con tutti i capelli impiastricciati di gel scompare dal mio campo visuale prima che abbia il tempo di metterla a fuoco. La toilette, ma che esotismo chiamare toilette questo buco senza luce dove a malapena s’intravedono water e lavandini scrostati. L’aria è fatta di pipì. Puzzano sempre di pipì le toilette italiane. All’alba, al tramonto. Forse puzzavano di pipì questi water già appena usciti dalla fabbrica. La mia pipì esce calda di rabbia e si adagia nel polistirolo, ne sento il gorgoglio gentile, il tepore sotto la mano. E ora? Una bella stropicciata a base di ammoniaca naturale e di vitamine B, A, C e D che prendo ogni mattina (e che a detta di un’amica vanno a finire tutte nella pipì) e sarò a posto. Illusione pia. Anche il solo versare alcune gocce sulle piaghe fa venire i brividi. Pare ci sia un pallone aerostatico sotto la pelle della mano. È diventata una cosa sconcia. Mi fa senso perfino guardarla. Aspetto due minuti e poi sciacquo con acqua fredda. Non voglio portarmi addosso questo puzzo di pipì, ma ormai ce l’ho dentro. Di tornare in acqua nemmeno l’ombra. Mi sento uno schifo. Miserable, direbbero in inglese. No, non miserabile, ma m’-ser’bol, totalmente m’-ser’bol. Ed a me rende l’idea più dei depressi e avviliti del vocabolario italiano…

Mi allungo sulla sdraio sotto l’ombrellone. Provo a rilassarmi, ma i telefonini di tutti i vicini si sono messi ad abbaiare come lupi mannari, uno dopo l’altro, all’unisono, di capo, di testa, di coda. Proprio come quando prendo il pullman in questo adorabile paese natio e non riesco ormai più ad isolarmi, nemmeno con i tappi di cera ultimo ritrovato, perché i telefonini si alternano, si sovrappongono, si eliminano, si acquietano, risorgono, convergono. Adulti rissosi, bambini viziati, adolescenti turbolenti, vecchi attaccabrighe, neonati biliosi, ecco cosa sono i cellulari, un concentrato di follia umana.

“Sì, stiamo per arrivare. Sì, sì ci vediamo tra poco.”

“Allora mi viene a prendere anche papà? Mancano quindici minuti.”

“Stiamo all’uscita dell’autostrada. Sì ci vediamo tra poco.”

“Ciao Marilù, no solo un poco di ritardo. Ci vediamo tra poco.”

“Siamo appena usciti dall’autostrada, ci vediamo tra pochi minuti.”

CI VEDIAMO TRA POCO. TRA POCHI MINUTI.

Vorrei che un megafono lo urlasse ai trentottomila venti, così almeno tutti, tutti i 65 passeggeri non ricevano telefonate insulse dalla musichetta atroce.

Mi fanno scoppiare, se almeno ci fosse un minimo di conversazione. E ora anche in spiaggia non smettono. Catafalco si cerca il telefonino infilando di scatto la mano tra i peli del petto glabro mentre la moglie tira con furia tutti gli indumenti dal borsone e i cappelli che lei ha religiosamente portato e nessun figlio ha indossato e le merendine e l’acqua ormai calda come la pipì e il telefonino che urla sempre più forte: ma che fai rincitrullito? E rispondi! RISPONDI!!! Minaccioso, al centro della vita il fighissimo cellulare. Drrin, sciallù sciallù, tatararà, squeeelom squeelom, piripirpòripò, piripiripòripò, PIRIPIRIPORIPÒ.

Rispondete o divento isterica. Rispondete, vi supplico, sono in ginocchio. Al limite. Dall’altoparlante dello stabile uai emme si ei si urla ai quattro venti. UAI EMME SI EI. UAAAI EM SI EEEI! E le ragazzine si scatenano sulla pedana a ritmo frenetico mentre l’istruttrice si dimena in preda al parossismo. È molto carina però e Luciano non smette un attimo di far finta di non sbirciarla. La mia pazienza sta bollendo a tremila gradi, mi alzo e nella furia faccio cadere il lettino, il costume s’inzuppa di sabbia, il sole s’imbestialisce, mai un caldo così, sono tredici anni che non venivo a ferragosto. I corpi ammassati sono da mercato del pesce di Chioggia: sogliole di tutte le tonalità, triglie arrossate, cefali impomatati, gamberi sfornati, pannocchie recidive, sarde spellate, saraghi allucinanti, scampi sfuggiti alle grinfie materne che urlano i cento decibel, radio personali a tutto volume per eliminare lo scarto da altoparlante UAI EMME SI EI.

L’uscita dallo stabilimento balneare. L’entrata in macchina. Mi sento un arrosto sanguinolento messo a lievitare in forno. Fino a quando Luciano non accende il motore non c’è verso di abbassare i finestrini. E senza aria condizionata e nel silenzio totale, consumiamo così le nostre vacanze su una favolosa spiaggia dell’Adriatico. Sporca, ma pur sempre favolosa. Con le cicche di sigarette più numerose dei chicchi di sabbia, ma pur sempre favolosa. Con sette esseri umani a metro quadrato, ma pur sempre favolosa. Con il mare impiastricciato di alghe e brulicante di meduse, ma pur sempre favolosa. Con le urla dei pargoli viziati, gli strozzii dei cellulari, i succhioni mozzafiato delle coppie avvinghiate come iene in calore (ma santa terra, proprio sotto gli occhi di tutti dovete scoparvi?), ma pur sempre, pur sempre cosa?

E si rivela un mito roco, marcio e imbastardito questo belpaese che di bello ha soltanto i ricordi.

E se rimango senza ciglia?

Durante il mio triennio messicano se per caso aprivo uno dei cassetti (ne avevo sessanta… da metterci un calzino per ognuno? mi chiesi la prima volta che mi trovai a fronteggiarli, ma la casa apparteneva a una di quelle famiglie locali che, pur costituendo il 2% della popolazione, avevano ed hanno in mano il 90% del reddito pubblico, ma questo è tutto un altro discorso, torniamo ai tiretti) della sezione invernale e scoprivo, mogie ed appiattite, maglie che per scaramanzia o per sbaglio mi ero portata dietro dal Canadà, mi soffermavo ad osservare con altezzosità e compunzione quelle poverelle che, strette ed appassite, si chiedevano il perché della loro esistenza. Ah, gongolavo, ben vi sta! e chi pensavate di essere, le tuttofare, le indispensabili alla sopravvivenza, le essenziali? E no, qui inutili e superflue siete! e rimarrete! E con saccenteria chiudevo il cassetto, come a seppellire per sempre avanzi di un passato inglorioso.

Poi a Vancouver tornai e quelle già in valigia cominciarono a scalpitare, gonfiandola come un otre ed appena a destinazione saltarono fuori con energia inaudita e mi s’incollarono addosso per il lustro successivo. Ora che a Calgary il termometro sul balcone segna -25, quelle stesse che a Città del Messico hanno sofferto di depressione acuta, di sindrome da generazione fallita – che cosa è andato storto, la pecora o il contadino? – circolano per casa così ingagliardite che non oso, pena congelamento da astinenza, riporle nemmeno momentaneamente nell’armadio. E invece, in un angolo dell’ultimo cassetto, mingherline, striminzite e irrigidite, riposano, spero non in eternum, le giovanette corte corte, estive ed emancipate. Ogni tanto le tocco, le accarezzo, tempo verrà, mormoro raccogliendole in un pugno – mentre per stringere, ma chi ci prova? le discendenti delle pecore, ho bisogno di uno di quei guanti da boxeur da trecento chili – e intanto gli occhi mi si riempiono di lacrime …

A proposito di occhi. Ieri sono uscita per venti minuti, (eh sì, aumentiamo la permanenza al fresco), ma non mi sono goduta affatto la passeggiata. Tutto il tempo ero assillata dalle mie ciglia. Si incollavano, si univano a mazzetti e si congelavano. E io a sbatterle come Barbie, nel terrore che quelle rimanessero appiccicate o me le ritrovassi ghiaccioli per terra. Per proteggerle ho infilato gli occhiali o meglio, ho pensato di infilarmi gli occhiali, che avevo sfilato poco prima con enorme difficoltà. E dopo averci pensato ho deciso che sì, valeva la pena, ed allora ho sfilato i due guanti (di una mano), cercato gli occhiali in tasca, provato a metterli con una mano, impossibile, sfilato gli altri due guanti (mentre la prima mano si stava congelando) e con le dieci dita ho spinto le stanghette sotto ai due strati di pecora (ed uno di poliestere – bandana particolarmente attillata altrimenti come mi protegge le orecchie?)  che mi coprivano il cuoio capelluto.

Decisamente meglio con gli occhiali. Mi pavoneggiavo come uno struzzo… complimentandomi per la fulmineità della soluzione, ma il tripudio è stato effimero, nel giro di un minuto la lente sinistra si è appannata e nel mezzo minuto successivo anche con l’occhio destro non vedevo nulla: il vapore del respiro, compresso dal momento che naso e bocca erano tappati da tre strati di sciarpa avvoltolati intorno al collo, come via d’uscita si arrampicava verso l’alto e si stabilizzava intorno agli occhi!

In genere uno ha bisogno di occhi, qui è vitale, se non guardo dove e come metto i piedi posso fare uno scivolone pacco super celere per l’altro mondo. E così, ripetendo i movimenti con fatica e apprensione ho risfilato gli occhiali e… dai con le ciglia attaccate! e rimettiti gli occhiali! e dai che non ci vedi! e toglili! e mettili! Con le mani sempre più tizzoni assenti. Fino alla scuola dove vado a fare la volontaria e lì…

Meno male che mi viene sempre la pipì e qui di bagni ce ne sono in quantità e puliti dappertutto (non come in Europa dove per fare le mie onnipresenti pipì son dovuta andare non so quante volte da Mac Donalds et similia – con aria saputa e dritta al tazzone gabinettario, senza nemmeno far finta di fermarmi al bancone degli acquisti!) allora, qui in questo mondo nuovo di Calgary, sono entrata in bagno e subito mi ha dato il benvenuto uno specchio a tutta parete (tre metri per uno – ne occupavo metà in larghezza con gli indumenti che avevo addosso), ho accumulato tutta la roba sfilabile e srotolabile sul lavandino, mi sono tolta gli occhiali per guardarmi meglio da vicino dal momento che sono miope e per poco non mi è venuto un colpo!

Chi era quella megera dalle guance completamente ricoperte di rimmel scucito e piovuto a rigagnoli dalle ciglia su tutto il viso? E di chi erano quegli occhi, neri e pestati, appena reduci da un combattimento con Diomede? Mentre mi pulivo, mormoravo tra i denti non è possibile, no, non è proprio possibile.

E se non avessi avuto la pipì da fare? Se mi fossi recata direttamente in quella classe di adulti nuovi immigrati?

Intanto, per il momento, c’è qualcuno che vuole il mio flaconcino di rimmel in regalo? E per oggi, è meglio andar fuori con Benedetta.

Usciamo raramente con Benedetta. Certo, se dobbiamo andare a fare la spesa allora la carichiamo a dovere di mele, arance e farina integrale, e magari ne approfittiamo per fare una puntatina dal macellaio (ci hanno consigliato di mangiare più carne per avere meno freddo) e un’altra in enoteca, anche se più che enoteca si tratta di un supermercato di alcoolici, dove entro e da dove esco sentendomi sempre l’ubriacone della taverna.

Anche se sei birre da mezzo litro ci durano in media da cinque mesi a un anno e una bottiglia di vino da tre quarti non si esaurisce in meno di due settimane, al solito è la percezione che conta, e qui dove l’alcool si compra solo da rivenditori specializzati, per me, ogni volta che vi accedo, è una confessione pubblica di debolezza ed ubriachezza. Di questo passo mi farò venire la cirrosi soltanto ad entrarci al negozio di alcolici! Comunque Benedetta in questi casi è utilissima, perché, ve l’immaginate caricarsi di bottiglie e mettersi a camminare sul ghiaccio alla nostra età? Lei ha sedici anni ma non li dimostra, e finora ha sempre fatto a modo il suo dovere. C’è stata è vero la crisi adolescenziale quando si è intestardita e bloccata dall’ansia si è impuntata su un ponte all’ora di punta – e per la vergogna e la rabbia mi ha portato sull’orlo di un isterismo acuto – ma, a parte scappatelle senza gravi conseguenze, è stata finora ubbidiente e solerte.

Qui comunque siamo afflitti da altri problemi che non dipendono dall’età. Appena la tiriamo fuori da quel sotterraneo dove l’abbiamo isolata – come in castigo, mi fa capire appena m’intravede – e la portiamo a prendere una boccata d’aria, si dà alla pazza gioia e ritorna a casa conciata in extremis. A Vancouver dalla sua veranda si godeva persino il mare, e i fiori e gli uccellini in primavera, a Calgary ho l’impressione che, in compagnia di altre bicocche e nemmeno una sorella, si senta relegata all’ospizio. Vorrei farle prendere più aria, ma, come accennavo, torna a casa impiastricciata di fango, terriccio e sassolini ed allora non so da che parte incominciare. Farle una doccia subito? Un bagno sarebbe meglio, ma non avendo i servizi in casa bisogna andare a quelli pubblici. E c’è sempre la fila, come in Giappone, e dopo un’ora e mezza di attesa e una strofinata a dovere, appena c’incamminiamo sul corso illuminato è punto e daccapo e da lucida e pulita diventa opaca e intoccabile la nostra Benedetta 751 volte, la nostra Volvo, BND 751, l’unica targa che rammento a memoria

Una volta l’ho persa. Parcheggiata e persa. Uscita dall’ufficio dell’avvocato non l’ho trovata più. E l’avevo lasciata solo un isolato più in là. In una strada tranquilla come l’olio. Che mi sono rifatta sette volte in una direzione e nell’altra, allargandomi di altre due isolati per essere sicura, ma oltremodo sicura che ‘non è che l’ho parcheggiata più in là e poi l’ho dimenticato?’. No, non c’era. Rubata. La mia Benedetta. Trafugata. Violentata. Chissà dove. E sono rientrata squilibrata dall’avvocato e la segretaria della segretaria e poi la segretaria e poi lo stesso avvocato (spero che non mi metta nel conto a 200 dollari l’ora queste sue parole di compassione e costernazione: che vita, che mondo e che natura infima. E pensi un po’ che questo è considerato un quartiere sicuro!) si sono avvicendati nell’incoraggiamento e nei consigli.

Telefoniamo alla polizia.

È meglio prima all’assicurazione.

Sì, ma hanno bisogno del rapporto della polizia. Ma chi può essere stato?

E questo nell’ora che la signora è stata qui!

Ma tu hai visto che giovinastri circolano ultimamente in queste zone?

Qual è il numero della polizia? 911?

Posso usare il vostro telefono dal momento che non ho un cellulare?

Ma certo, ecco guardi le faccio io il numero.

Un vocione, e la solita prassi. Tutte le generalità e poi un numero di riferimento. Che ho passato all’assicurazione. Dove mi hanno promesso una macchina in attesa di notizie della mia.

Vengo ora a prenderla?

Certo signora, l’aspettiamo.

Saluto i tre ancora in preda all’ansia e all’inquietudine. Non accetto la realtà che abbiano rubato Benedetta. Non parliamo di digerirla la faccenda, ma almeno riconoscere l’accaduto. No, ‘mi hanno rubato Benedetta’ circola ancora fuori, come un colibrì intorno a un fiore rosso. E mi rifaccio i cinque isolati, uno di seguito all’altro, per altre due volte, guardando a destra e a manca, persino nei garage delle case (e se avessi scambiato un garage per un altro e l’avessi messa lì invece che nel mio a 15 chilometri da qui?) E automaticamente una parte del mio cervello, quella che si dà da fare per ritrovare le cause perdute, si mette a recitare la litania che ho sentito a giorni o mesi alterni per tutta l’infanzia: Lena Santa Lena imperatrice, madre di Costantino imperatore, per terra andasti e per mare tornasti per ritrovare la croce di Cristo, tu la croce di Cristo la trovasti, fammi trovare la macchina Santa Lena mia. Fammi trovare la macchina Santa Lena mia. Fammela ritrovare.

‘La litania funziona, te l’assicuro,’ insisteva mia madre, nella speranza di convincermi, mentre cercava con occhiali spessi un dito, l’ennesimo ago che aveva perso sul pavimento. Mi meraviglio che non ci siamo mai ritrovati un ago nella minestra. Santa Lena deve averglieli fatti trovare tutti, nonostante la dissacrazione di mio padre.

Santa Lena, fammi ritrovare la macchina. Avanti ancora una volta, non è che abbia scambiato un colore per un altro e quella Volvo a fianco al negozio è la mia anche se questa è rossa e la mia è blu? Annaspo così a mio agio nelle assurdità che il corpo si avvia da solo, gira a destra e si fa un isolato in su, gira e sinistra e ritorna verso l’avvocato, ma di un isolato in su e lì, che sia benedetta 751MILA volte, lì, tranquilla come un uovo di Pasqua, mi aspetta la mia Benedetta 751 volte. Ma come? Allora non l’avevo parcheggiata nella seconda strada! Era nella terza! Ma come ho fatto a confondermi? E il rosso di un pomodoro fiammante mi sale alle guance. Devo chiamare l’assicurazione! La polizia! E chi avrà il coraggio? Che vergogna.

Pare che non succeda solo a me.

“Capita a tanti” ridacchia il poliziotto che nel frattempo è arrivato.

Ma intanto ora quando la lascio da qualche parte mi guardo intorno cinque volte, per imprimermi nel cervello le esatte coordinate, e se ho carta e matita, qualche volta mi scrivo pure l’indirizzo. Già, ma se poi perdo il pezzo di carta? Insomma, sconfino nella paranoia.

Non è tuttavia questa la ragione che m’impedisce di circolare spesso con Benedetta. Le macchine hanno per me la stessa importanza delle scope per spazzare il terrazzo e, difficilmente riuscirei a distinguere una Ferrari da una Toyota. Il problema è che quando usciamo insieme, sole sole lei ed io qui a Calgary, s’innervosisce per un nonnulla, scivola di qua, sbanda di là, si ombreggia, non mi fa vedere più nulla e vuole i tergicristalli sempre in movimento. Spruzzo acqua e pulisco il parabrezza, sforno vapore e schiarisco i retrovisori. Forse è il freddo, i miei occhiali si appannano, altrettanto i suoi. E così c’incontriamo sempre meno spesso, anche perché poi capita che se la porto ai bagni pubblici, dopo due ore di attesa e una sacrosanta strofinata, il primo bellimbusto maschio furgone che ci passa accanto la schizza senza pietà e il vestito della festa diventa straccio da buttare.

Vita di coppia

La mia dolce metà ed io andiamo a teatro, al cinema, a guardare le vetrine, a comprarci il dolcetto, a sentire il concerto, in ufficio e a scuola, dal barbiere e dalla massaggiatrice quasi sempre a piedi.

‘A che ora usciamo?’ mi fa lui, sapendo benissimo che sono quella che cento ne pensa ed altrettante ne fa – diverse da quelle pensate. E io, il naso perso a pagina 670 dei fratelli Karamazov, sbircio l’orologio, sono le dieci e dieci, ‘quando vuoi’, gli dico, ‘anche tra mezz’ora.’ ‘Va bene, allora tra mezz’ora siamo pronti,’ dice lui, col tono raramente speranzoso.

Alle dieci e venti comincia le vestizioni e alle dieci e quasi quaranta è apparecchiato da meno quaranta, la mano pronta sulla maniglia della porta.

Sono le dieci e trentanove, mi fa con un tono che vuole essere atonale ma che è già battagliero.

Ma io sono pronta! e balzo dalla sedia lanciando sul divano Dostoevskij.

Vedo, vedo, commenta lui.

In realtà sono io che vedo che lui sta cominciando a sudare, e mi precipito, infilando quello che mi capita, magari anche in ordine inverso, con i pantaloni da sci già abbottonati e la calzamaglia ancora da infilare e… mentre sono in bilico su una gamba con la pelliccia che mi pesa addosso con la sua quintalata di peli, mi ricordo e grido: il fazzoletto! È ovvio che ci pensi solo all’ultimo momento, in casa non lo uso mai.

Te lo do io, mi risponde lui, commento che dal tono di voce vuol dire, se non ti sbrighi, ti strozzo col fazzoletto!

Sono molto impulsiva purtroppo e, sfidando l’ira di Achille mi tolgo il giaccone-orso, lo butto sul pavimento (sotto la disapprovazione degli occhi di Achille), in equilibrio su una gamba per non sporcare la moquette col fango attaccato in fondo agli stivali ne metto uno e col piede stivalato fuori dalla porta metto anche l’altro e quando, sfidante, guardo negli occhi il mio consorte mi rendo conto dalla direzione delle sue pupille che io sono fuori porta, ma la pelliccia giace in mezzo alla stanza. Chi me la porta fino alla porta? A questo punto lui, a un passo dallo scoppiamento fisiologico e psicologico si avvia in avancoperta (sic) e mi lascia da sola a risolvere il dilemma.

Vado giù, ti aspetto fuori, dice.

Ok, ok, gli rispondo e intanto cerco, implorante… un lacchè… uno solo, mica centomila. Per favore lacchè portami la pelliccia, aiutami ad infilare gli stivali lacchè, prendimi un fazzoletto lacchè… mica per cucinare, pulire la casa, i bagni, no, no, solo per darmi una mano a vestire e spogliarmi. Perché poi la stessa scena si ripete non appena mettiamo piede in un negozio. La mia metà si porta appresso lo zaino e ci infila dentro la roba che si toglie, pregandomi di approfittarne e metterci anche la mia. Spesso lo faccio senza scrupoli, ma talvolta voglio essere indipendente (!) e allora mi accartoccio sotto le ascelle, tra le mani, nelle tasche, tutto quel ben d’inverno e finisco sempre col perdere qualcosa. E se non sono io ad accorgermene (o la mia metà che in quei momenti non vorrebbe essere nemmeno la mia milionesima) c’è sempre qualcuno che mi rincorre a consegnarmi un guanto o si china a raccogliermi una sciarpa.

Se non c’è nessuno intorno allora gli indumenti li trovo appesi nell’ingresso del palazzo dove abitiamo, come l’altro giorno, quando Luciano dall’ufficio mi lascia un messaggio telefonico per dirmi, credo che giù hanno appeso al muro un tuo cappello, puoi andare a vedere se è il tuo?

… era proprio il mio…

Ma come faccio? La 24 ore non mi basta, allora devo portarmi il baule dietro e riempirlo ogni volta che entro in un negozio con tutti gli strati che mi tolgo di dosso? Nell’attesa del lacchè mi abbandono ad altri sogni selvaggi. Un termosifone incandescente sotto l’ombrello, come le piastre di ghisa dei ristoranti all’aperto a -10. Una si veste leggera come madre natura tropicale comanda e lì, a mo’ di turbante e a trenta centimetri dal cuoio capelluto, un bel fornello arroventato a difenderla dagli elementi. Chissà perché non l’hanno ancora inventato…

Perché non dici nulla? mi chiede talvolta la mia metà mentre, intabarrati come due rapinatori, il passamontagna fino alle ciglia inferiori e il cappuccio fino a quelle superiori, e rallentati nei movimenti da mezzo metro radiale (a testa) di tessuti protettivi, camminiamo per il corso principale della città. Più che camminare devo dire che a volte disegniamo percorsi arabescati o esoterici, perché mettiamo un piede davanti, dietro, in diagonale rispetto all’altro, per evitare gli strati di ghiaccio e i cumuli di neve.

E come faccio a parlare? gli rispondo senza articolare. Le parole diventano aria e l’aria si congela in bottoncini di ghiaccio sotto la sciarpa e poi i bottoncini si stringono e come mattoni irrigidiscono il cachemire.

Per parlare entriamo nel centro commerciale e l’altro giorno siamo finiti in dei giardini coperti, piante vere con i colori veri, ma facevano tristezza lì, con i negozi di sotto e il cielo isolato dalle vetrate ad arco.

Venerdì sera tanto per cambiare siamo andati al ristorante. Uno di lusso, con le candele e gli abiti da sera. Ma chi se l’immaginava! Si mangia bene, ci avevano detto e piuttosto che cercarne un altro intirizziti dai -19, ci siamo accomodati senza tanti problemi. Si fa per dire. Dieci minuti dalla sola guardarobiera e poi, sentendoci nudi come Adamo ed Eva, ci siamo issati al tavolino. Gli sgabelli erano un po’ alti e chi vedo giocherellare sul parquet tirato a lustro? I miei mostriciattoli! I miei orrendi stivali da guappo perdigiorno, neri, inzaccherati di fango e poltiglia, grossi come zampe d’elefante, da cui spuntano i calzettoni blu a righe bianche, seguiti da un pantalone marrone vecchissimo, e tutto questo sotto gli sguardi di clienti impomatati che mi passano davanti. Faccio brutto viso a inesistente gioco e mi rabbuio come un calderone ma, ne vale la pena? mi consola la metà. E che puoi fare, mica correre (si fa per dire) a casa a cambiarti?

Ma i nativi come fanno? Quelli che si azzardano ad andare a piedi, sì, come fanno?

Un po’ di spirito d’osservazione aiuta sempre e così scopro che i Calgaresi purosangue camminano con gli zamponi, ma poi si portano sottobraccio in una borsa o in una busta le scarpette presentabili, o semplicemente le allacciano e se le dondolano lungo i fianchi, a mo’ di borsetta ultima moda

E così anche le scarpe mi sono portata in quella famosa scuola, dove comincio alle nove e mezza, ma arrivo alle nove meno cinque, per avere tutto il tempo necessario ad uscire dall’inverno di cui sono vestita.

Comunque la sera del ristorante smart (qui dicono smart e mi chiedo sempre come un ristorante o un cappotto possano essere smart – che io traduco ‘intelligente’ in italiano – ma comunque così è), quindi quella sera lì, dopo il ristorante intelligente siamo anche andati a teatro, uno spettacolo anche quello smart intelligente, un Rachmaninov da farti saltare in piedi ad applaudire. E i miei piedi sono letteralmente saltati fuori dalle zampe, pena il liquefacimento immediato dovuto alla sala surriscaldata. E non mi vergognavo nemmeno, anche se, passando davanti ad uno specchio, durante l’intervallo mi sono chiesta, incredula e pallida, ma sono proprio io questa con i pantaloni alla zompafosso, mezzo infilati negli stivali sgarruppati da cui s’intravvedono calzettoni bandiera?

La stessa domanda mi pongo quando, al rientro dalla sfida alle intemperie, mi ritrovo nel corridoio del condominio dove abito. La portinaia ha appeso uno specchio a un metro dall’ascensore e le prime volte mi sono chiesta: perché? Forse così uno si guarda e vede se si riconosce e si chiede: è sicuro che abito proprio qui? Io non mi chiedo se abito qui, mi domando invece, è sicuro che sono proprio io? Perché quella testa che viene fuori appena mi scappuccio con i capelli che vruuuum si lanciano all’assalto dritti come aghi di un porcospino imbizzarrito, quei capelli che se oso avvicinarmi con la mano mi seguono come pini arrabattati dal vento, quella ruota di capelli ad alone di santo del giudizio universale… quei capelli ohibò sono proprio i miei!

Ma non sono i soli a caricarsi di elettricità statica. La coperta rossa che talvolta di sera aggiungo al piumino, quando a metà notte la lancio dal letto fa scintille pirotecniche e così le mie dita nel toccare gli interruttori, le maniglie delle porte, perfino la mano della mia metà.

Un paio di settimane fa quando l’aria era talmente secca che mi mettevo sulla pelle continui strati di olio fino a chiedermi stranita se per caso non mi provocassero un ingrassamento dall’esterno, per evitare scintille Luciano si è preso un cucchiaio e con quello si è avvicinato agli interruttori.

Funziona? gli ho chiesto incredula.

Certo, perché il metallo scarica l’elettricità.

Ah sì?

Ed allora mi sono armata di un cucchiaio e con quello me ne sono andata in giro per casa. Una lampada da accendere? zac, prima una cucchiaiata! Un interruttore da spingere? Zac un’altra cucchiaiata. E la sera, all’ora dell’abbraccio della buonanotte tra noi due (perché l’uno va a dormire due ore prima dell’altra) quando il mio amore si è avvicinato, invece delle solite precauzioni per evitare scintille malaugurate, zac una cucchiaiata!

Gli eschimesi si salutano a nasate, noi lo facciamo a cucchiaiate.

Sempre meglio delle forchettate.

Esplorare i dintorni

Per il compleanno di Luciano siamo andati al lago Louise, sulle Montagne Rocciose.

Abbiamo camminato sulle acque, facile tutto sommato quando un metro di ghiaccio ti separa da quelle ancora in burbuglio lì sotto… Ci siamo sentiti bene e soli nella culla del mondo, camminando guantone nel guantone come gli innamoratini di Peynet, ma poi è arrivata un’armata di giapponesi a rompere l’idillio e allora ci siamo avventurati nel vialetto sotto la montagna, più tranquillo e meno rumoroso.

Non solo sulle acque si cammina al lago Louise, anche sulle cascate. C’erano due alpinisti che si arrampicavano sull’azzurro dell’acqua congelata nel movimento. Scena apocalittica, ancora un po’ e perdevo i sensi a guardarli.

Luciano è piuttosto rilassato quando cammina sulla neve e sul ghiaccio, io mi sento come su una distesa di gnocchi appena fatti. Da non calpestare. E ovviamente lui mi sciorina tutte le sue teorie. Vedi, mi spiegava quella mattina, devi mettere i piedi dove ci sono i sassolini, quelli creano attrito e tu vai tranquilla perché così non… cadi… Solo che l’ultima parola è stata mormorata a labbra strette mentre cercava di rialzarsi dallo scivolone che quel birbaccio di un sasso gli aveva provocato.

Al ritorno al parcheggio – accuratamente ricoperto da un lastrone di ghiaccio e che noi abbiamo raggiunto per vie traverse – abbiamo trovato un gruppo di gente indaffarata intorno ad una macchina slittata in una cunetta. E mo’ come facciamo? sgrano gli occhi io, già in preda ad un attacco di ansia. Non preoccuparti, consola lui serafico, e allora per dominare il panico mi distraggo a guardare un trio di donne della mia età, Camminano con assoluta sicurezza mentre io, se mi azzardo appena con la punta dello zampone, sento già strette invisibili che mi trascinano a capofitto sul ghiaccio.

Come fate? chiedo alle tre e quelle senza vanagloria mi mostrano la pianta dei piedi. Attaccati agli scarponi-stivaloni hanno degli aggeggi di metallo che pare creino una presa inattaccabile sul ghiaccio più astuto. Ed a giudicare dal modo come le tre si muovono –confidenza, semplicità e noncuranza – qualcosa quei ramponi devono pur fare.

Dove li avete comprati? m’informo subito e, soddisfatta della risposta, li vedo già incollati ai miei piedi imbranati.

Ma non c’è nemmeno bisogno di recarsi al negozio in periferia, li trovo sotto casa.

Vittoriosa li porto a casa come un oggetto sacro e muoio dalla voglia di provarli subito. Mica facile affibbiarli agli scarponi, quelli se ne scappano come da una prigione! Borbottando a denti stretti già mi ci vedo per strada, con i ramponi da ghiaccio che si staccano ed io in equilibrio precario che cerco di rimetterli a posto. Ma forse sono inutilmente pessimista. Dopo solo undici minuti di trattative il fondo scarponi è bell’e incapsulato ed io sono prontissima ad infilarli. Sulla moquette riesco a muovermi, anche se a disagio, ma appena dal corridoio mi avventuro sulle scale ricoperte di linoleum, non scivolare è una prodezza da equilibrista.

Come se avessi ambedue le gambe inservibili mi aggrappo alla ringhiera e mi lascio ruzzolare, pregando ovviamente che l’angelo custode non si distragga. Non vedo l’ora di essere sul ghiaccio – o meglio – di abbandonare il linoleum. E meno male che l’atrio dell’immobile è ricoperto da uno strato di moquette spessa, altrimenti sai che cascatone!

Non c’è nessuno intorno, cammino come un elefante, issata sui ramponi come su paletti di ferro. Anche sul ghiaccio non funzionano, no, sono troppo alti, due pollici di ferro attorcigliato sotto i piedi, no, no, non sono nata acrobata. Eppure quelle donne al parcheggio sembravano così a loro agio. Vuoi vedere che ci sono altri tipi, magari più bassi, magari con meno ferro attorcigliato, su cui non mi sento come su due pioli?

Mi tolgo gli aggeggi e passo all’attacco. Comincio con una marea di telefonate. Alcuni negozianti non capiscono nemmeno cosa cerco – e neanche io so esattamente che cosa voglio – ma da un centro di attrezzi per alpinisti mi rispondono che ne hanno almeno di tre tipi. E così, col timore di scivolare, ma nella speranza di dominare, cammino, saltello, devio, affondo, evito, ritraggo e finalmente arrivo.

Sì, hanno tre tipi di ramponi, ma il primo è esattamente come quello che ho comprato (e già riportato al negozio sotto casa. Che bello il Canada. Puoi riportare tutto, angurie, birre, vestiti, libri, televisori, divani, chissà se anche la vita ti consentono di riportare, questa non mi piace, voglio provarne un’altra, oppure, posso tenerla per una settimana e poi decidere?) e quindi scarto la prima scatola come un animale infetto; il secondo e il terzo modello sembrano uguali, ma ci sono piccole differenze e non solo di prezzo e di marca. Non ho elementi per l’uno o l’altro paio e decido in base all’istinto e al prezzo… se sembrano uguali e costano di meno perché spendere di più?

Questa volta non torno a casa vittoriosa, ma meditabonda – e se sono scomodi come gli altri – e se mi faranno sentire sui trampoli – e se sono difficili da mettere.

Difficili sì, sono difficili da affibbiare agli scarponi, ma l’acciaio, o l’alluminio, ferro, amianto… arrotolato, pur essendo più spesso è meno alto, quindi forse non perderò l’equilibrio come su quegli altri. Non mi allontano molto da dove abito, le prove le faccio sotto casa, sotto gli sguardi degli operai che lavorano giorno e notte per costruire qui a fianco un palazzone e che si chiederanno, vedendomi andare su e giù sugli stessi tre metri di ghiaccio, se per caso non stia cercando oro lì sotto, o la cacca del cane del vicino congelata.

Questi ramponi vanno così decisi all’attacco che s’incastrano nel ghiaccio e non ne vogliono sapere di staccarsi ed avanzare. E no, non è possibile, i miei piedi sono incollati, sono immobile nel tempo e nello spazio, se ci penso un secondo di più precipiterò come corpo vivo cade. Mi do coraggio, altrimenti mi metto a gridare come un’isterica, mi arrabbio e spingo e muovo e vengo fuori e lo sforzo per poco non mi manda a gambe all’aria. Questi aggeggi… io!… immediatamente li riporto al negozio! ma lo denunzio quel venditore, in tribunale lo porto, insieme alla ditta che li ha fatti, ma questi sono assassini, omicidi stanno commettendo! Infuriata mi sfurio per strada e la rabbia sbolle quando i commessi si danno a scuse (ancora un po’ e mi portano fuori a cena) e mi propongono l’ultimo paio senza nemmeno pagarlo, per prova e regalo.

L’ultimo paio non si attacca al ghiaccio come una sanguisuga, ma quello strato di acciaio e gomma rombato e zigrinato che mi agguanta gli scarponi premendomi sulla punta e al calcagno non è proprio la cosa più confortevole di questo mondo e così miseramente finisce il mio tentativo, pur agguerrito, di dominare le insidie gelate.

Ma chissà quelle tre donne come facevano!