La prima volta che feci un invito a cena a Vancouver era per un collega di mio marito con la moglie.
Alla maniera italiana, o piuttosto come mi avevano abituato in famiglia, cucinai per dieci ed eravamo in quattro.
Loro arrivarono puntualissimi, anzi perfino con qualche minuto di anticipo, io avevo appena finito di imbellettarmi dopo aver apparecchiato, pulito, corso ed ansimato tutto il giorno. Non me li aspettavo così in orario, ero abituata ai ritardi accademici, ma mi adeguai in fretta.
Lui aveva tra le mani una confezione da sei birre, tenuta così da un lato, non incartata e con il prezzo ancora incollato sopra. Mentre con una mano si toglieva il cappotto io lo guardavo inorridita, temendo che le birre si rovesciassero sul pavimento e sporcassero parquet e tappeti. Ma che modi sono questi? mi dicevo in preda ad uno stato di trance profondo, non mi conosce per niente e mi porta sei birre, ma per chi mi ha presa, per un’ubriacona? E poi non sa che noi la birra la beviamo solo con la pizza? e io mica la pizza gli ho fatto! Me tapina, che ho lavorato tutto il giorno a preparare un carpaccio di zucchine e il soufflé al salmone e le verdure e il radicchio con la belga e perfino la mousse alla nocciola… ed il mio ospite che fa? pensa di andare in pizzeria…!
Beh, insomma, meno male che i pensieri non si leggono nella mente dell’altro, altrimenti chissà che guaio avrei combinato.
Luciano reagì subito con disinvoltura al mio impaccio catatonico, ringraziò per le birre, li fece accomodare e bene o male la serata cominciò e poi finì, tra un aperitivo, un Montepulciano e un digestivo alla melagrana.
Le birre non le bevemmo, finirono in cantina dove durarono suppergiù un anno.
Per la cena successiva eravamo in sei. Una coppia portò una crostata di mele. Che posso prepararti? dai, ti faccio qualcosa, mi viene molto bene il tortino di mele, va bene se te lo porto? aveva tanto insistito una delle mogli che alla fine cedetti ed accettai.
La crostata non era squisita, era dolcissima e sapeva di mix da supermercato. Quando, a fine serata, mi appresto ad adagiare la torta avanzata in uno dei miei piatti per liberare quello dell’amica e restituirglielo pulito lei, vedendomi con la paletta da dolci pronta ad intervenire, mi fa: ah, ti è piaciuta, vuoi che te ne lasci un poco? ecco, facciamo così, prenditene questa fetta!
No, no, e poi no!!! Arrossisco di stizza. Ma che paese è questo dove uno ti porta un dolce e poi si riporta indietro tutti gli avanzi? Non credo alla situazione e sono irritatissima con me stessa. E se l’amica ha pensato che volessi impossessarmi della sua torta senza nemmeno chiederglielo? Di una torta che poi, per quello che mi riguarda, nella spazzatura andrà a finire.
Ebbi bisogno di un bel po’ di tempo per digerire l’accaduto. Nel frattempo visitammo un paio di ristoranti, uno dalle porzioni super abbondanti che non avremmo mai potuto finire. Quando il cameriere venne a ritirare i piatti, vedendo tutti quegli avanzi ci fa: volete una ‘doggy bag’? No, no, non abbiamo un cane, mi affretto a rispondere sincera, non vogliamo la busta per il cane e lui, che non ci mette più di un secondo a capire che siamo stranieri e nuovi alle abitudini locali, affabile ci spiega che la doggy bag non è per il cane, ma è per noi. Può metterci in un piatto di polistirolo o in un contenitore tutto quell’agnello avanzato e possiamo portarcelo a casa per mangiarcelo quando vogliamo.
In quella prima occasione ebbi un’altra reazione da svenimento, in seguito capii l’utilità della prassi. Qualche volta accettai di portarmi gli avanzi a casa, ma finii per buttarli – non riesco a capire come un piatto che sa di squisito al ristorante, assaggiato l’indomani a casa, abbia l’aspetto e il sapore latrinoso – poi comunque, conoscendo in anticipo i risultati, persi l’abitudine della doggy bag.
Uno dei primi Natali in Canada la ditta per cui lavorava Luciano mandò una circolare agli impiegati, chiedendo se preferissero come regalo natalizio un tacchino o venticinque dollari. Scegliemmo il tacchino che ci sarebbe stato consegnato, ci spiegarono, il ventidue dicembre a casa.
Ed il ventidue dicembre di pomeriggio sento suonare il campanello, vado ad aprire e trovo un giovane in divisa da supermercato alimentare, un cappello rosso in testa ed un pacco enorme ai piedi: Ma’am, here’s your turkey. Merry Christmas! e scompare nel furgoncino.
Ecco il suo tacchino, signora! Il mio tacchino??? Ma in quella scatola c’entra un bisonte! Cerco di sollevare il paccone, è pesantissimo e gelato. Con un’immane forza di volontà lo trascino in cucina, apro in preda allo spavento e trovo, compresso sottovuoto nella plastica, un tacchino congelato dalle dimensioni di un dinosauro. Non ho i sali, non posso svenire, non ho nemmeno qualcuno che mi raccolga perché Luciano è in ufficio.
Mamma mia!!! e che ci facciamo con questo bestione? sono le prime parole che lui riesce ad articolare quando rientra, dopo un lungo periodo di sbalordimento. Il problema non è soltanto che cosa farci, è dove metterlo, in quale teglia, su quale ripiano del frigo, bisogna liberarne almeno due, anzi tre, sfilarne due ed incastrare il tacchino. Ma come ti è venuto in mente di ordinare il tacchino, mi fa lui. E che ne sapevo io che ci portavano un bufalo! Ma ti piace poi? Sì, l’ho mangiato qualche volta, ma non mi ricordo queste dimensioni smisurate. Ma chi ce l’ha fatto fare…
E questo solo per cominciare, perché poi Luciano passò tutta l’antivigilia di Natale a tagliare il tacchino ed io tutta la vigilia a cucinarlo e tutti e due tutto il mese di gennaio a mangiarlo. Ci si nutriva di tacchino, si parlava di tacchino, lo si sognava perfino di notte il tacchino, vivendo nel terrore di diventare stupidi come tacchini. (Ma è poi vero che sono stupidi?) Fu in quell’occasione credo, per liberarmi della provvista di tacchino fino alla quaresima che decisi di organizzare una grande festa con un bel numero di invitati, una ventina se ricordo bene, tutti seduti intorno ad una gran tavolata. Cucinai per tre giorni, mica potevo servire tacchino per antipasto, primo e dessert? ero stanchissima, ma felice. E poi anche la stanchezza mi passò d’un colpo quando mi accorsi, ad operazione ormai ultimata, che mentre io chiacchieravo animatamente nel mio gruppo di donne (non so se raccontando ancora la storia del tacchino), uno degli ospiti si era messo a lavare tutti i piatti, posate e tegami! Lui lavava, la moglie asciugava e metteva a posto.
Quando li scoprii, alla mia maniera mi diedi a rimostranze clamorose, ma loro continuarono ed a sera inoltrata, quando anche l’ultimo invitato se ne andò, che piacere provai nell’andare in cucina e trovare tutto perfettamente a posto! Mi rimaneva soltanto da mettere negli armadietti quello che loro due non sapevano dove riporre.
Ma Luciano, te l’immagini una cosa del genere in Italia? Uno scienziato, ospite in casa tua che tranquillo se ne va a ripulirti la cucina? Che bello, però il Canada!… a parte i tacchini…
Non so se fu grazie a quella cena che poi ebbi la nomea, tra amici e conoscenti, di cuoca esperta e perfetta. Io che non avevo mai cucinato o quasi fino alla veneranda età di ventotto anni e che avevo passato i primi anni di vita da sola o in coppia, a propinare a me stessa o a noi due, insalate di tutti i tipi e formaggi di tutte le fogge e sapori, oltre a mandorle e semi vari e yogurt dal pallore inverosimile!
Comunque anche questa è la terra canadese. Un paese dove i giovani e gli adulti guardavano scioccati e perplessi mia madre passare tre ore la domenica mattina a fare le orecchiette, o mia suocera cominciare a pensare al pranzo e alla cena da quando si levava all’alba. Come è possibile dedicare tanto tempo alla cucina? mi chiedeva costernata la babysitter di mio figlio, quando il tutto, poi viene consumato in meno di un’ora? A casa mia si usano scatolette e surgelati, raccontava lei, certo, non c’è paragone con quello che mangio qui, però, vale la pena? Le rispondevo che fare i ravioli per mia suocera e allineare le orecchiette una identica all’altra, una a fianco all’altra, per mia madre, era forse una perfetta forma di meditazione…!
Non fui la sola, comunque, a conquistarmi la fama di cuoca provetta. La corona toccò anche all’amica romana di cui sopra, quella del thank you della figlia. Pare che, da schiappa condannata sulle tavole italiane, diventò in pochi mesi una preparatrice graziosissima di gnocchi alla romana. Sembra, mi raccontava, che sapesse fare solo quelli e nemmeno tanto bene – che propinasse sempre quelli agli ospiti in tutte le salse e colori e che, immancabilmente, ad ogni tavolata, tutte le bocche (canadesi, non osava invitare quelle dei connazionali) s’innalzassero al cielo in visibilio dopo averne assaggiato soltanto uno! Come si sa, tutto è relativo a questo mondo, e il detto viene da un mondo di paese più o meno uguale, dove tutti parlavano la stessa lingua, mangiavano le stesse cose e si vestivano più o meno uguali. Immaginiamo adesso la relatività in questa nazione, dove si esce di casa e solo una strada più in là s’incontrano bengalesi in sari, sikh con la barba e col turbante, musulmane in burka, giapponesi in kimono e cinesi col giacchettino alla Mao Tze Tung. E questi, come s’intuisce, sono solo gli aspetti più appariscenti…
Ma andiamo anche a visitare le tavole degli amici.
Una delle cene più carine fu a casa di amici cinesi, ci andammo in sei, noi due, i figli e le nonne. La prima sorpresa fu il doversi togliere le scarpe. Per le nonne era un fatto inconcepibile… mi sento come nuda, mi bisbigliò all’orecchio mia madre, è come se mi fossi alzata di notte per andare a fare pipì e nel buio non riuscissi a trovare nemmeno le pantofole, confessò mia suocera sorridendo birichina. Evitammo di tradurre i commenti ai nostri amici, o meglio il contenuto che arrivò in inglese fu, che bella casa, che bel quadro vicino alla finestra…!
Pur se a piedi nudi, mangiammo da scoppiare quella sera. Non so quante portate, nove, mi confermò mio figlio, sembra che per le abitudini cinesi sia d’uopo preparare tanti piatti per quanti sono i commensali. Ma chissà se è vero o se sono invenzioni di ragazzi.
Comunque tutto era squisitamente saporito, preparato all’istante, col risultato che il marito della mia amica, professore universitario arrivato da poco dal nord della Cina, passò l’intera serata in cucina a sfornare leccornia su leccornia. Pare che se preparato in anticipo il cibo si rovini – e ci credo! però fare da cuoco per due ore mentre gli ospiti sono di là non è mica divertente…
E adesso mi viene in mente quella volta che fui io ad invitarli a casa mia e che, sapendo benissimo che loro preferivano del pesce vivo cotto all’istante andai fino a Chinatown, da un negozio all’altro e finalmente trovai dei gamberi d’allevamento ancora sgambettanti. Il commesso me li mise in due buste, una dentro l’altra; io dovetti, prima assistere all’agonia di quegli esseri viventi che, presentendo di andare verso sicura morte si agitavano come forsennati – e per paura sorressi la busta col braccio teso, lontano dal corpo – e poi sorbirmi tutti i loro istinti di sopravvivenza che continuavano a lottare sul sedile della macchina mentre agitata guidavo verso casa.
Non ebbi più il coraggio per anni di toccare un gambero dopo quell’episodio, mi facevano troppo pena, così come non ho più mangiato granchi dopo quel fattaccio, il nostro primo anno in Canadà quando, per sorprendere degli amici francesi appena arrivati da Lione, proponemmo loro (e propinammo) granchi vivi.
Meno male che ne comprammo solo uno; il pescivendolo ci raccomandò di fare attenzione perché si trattava di animali forti. Ma noi, vedendoli già come cibi, non prestammo attenzione alle sue parole ed una volta a casa, preparata l’acqua bollente, con nonchalance vi buttammo il granchio vivo che invece con altrettanta nonchalance se la squagliò ed andò a finire sul pavimento della cucina dove seminò il terrore tra gli astanti. Le donne se ne scapparono urlando, il sesso forte corse a prendere le pinze da camino, i bambini si strozzarono dal divertimento e finalmente, dopo corse e tentativi da fumetti il famigerato crostaceo con le chele a tenaglia, finì nel calderone. Solo il francese ebbe voglia di mangiarlo, noi eravamo traumatizzati e i bambini, naturalmente sentirono pena e malinconia.
Diverse volte siamo stati invitati a potlucks. C’era mia madre qui la prima volta che ci capitò e l’amica che stava organizzando la festa di compleanno per la figlia pensò bene di informarci. Ognuno prepara un piatto, puoi scegliere quello che vuoi, oppure, se preferisci, posso dirti io di che cosa ho bisogno, mi spiegava. Potresti prepararmi un piatto di verdure al forno, per esempio, o, se preferisci, un’insalata di pasta…
Mia madre ascoltava (in traduzione) con gli occhi sgranati, non riusciva a capacitarsi, ma come, c’invitavano a cena e noi dovevamo portare da mangiare?
Se all’inizio l’evento mi sembrava strano poi ci feci l’abitudine, lo trovai comodo e interessante: vivendo in un paese così cosmopolita capitava spesso che gli invitati provenissero da almeno tre continenti, ed allora ogni piatto risultava esotico ed appetitoso. Sì, questo è un altro aspetto affascinante del Canada. È facile che a casa mia o da amici ci siano cinesi, giapponesi, coreani, marocchini, indiani, sudanesi, europei di tutti i tipi, insomma un grande minestrone, dove su venti persone forse solo due o tre sono nate in Canada. Grazie a questo è possibile trovare prodotti provenienti da tutto il mondo e ristoranti con cucina veramente internazionale.
Un’amica arrivata da poco dalla Russia mi faceva notare, sai, il Canada è come un ospedale, noi emigriamo dai nostri paesi per problemi di guerra, politici, economici, veniamo qui come malati a guarire… e di solito guariamo.
Mi piace l’idea, ma preferisco l’immagine di un giardino da convalescenza, piuttosto che quella dell’ospedale!