Era l’argomento di conversazione con gli studenti del corso d’inglese per nuovi immigranti. Nel mio gruppo c’erano due cinesi, una polacca e una russa. Che cosa pensate, aveva suggerito l’insegnante, di questa abitudine canadese dove, mostrare gratitudine e apprezzamento è estremamente importante? Erano stati a visitare insieme un centro sportivo, con visita guidata offerta dal centro stesso, ed ora era d’obbligo per l’insegnante ringraziare con un biglietto, una lettera personale da parte di tutti.
Di queste lettere di ringraziamento è gremito il Canada. Dai dentisti, negli studi medici, nelle scuole, negli uffici, nei musei, in vari centri pubblici e privati si trovano alle pareti – dove fanno bella mostra di sé – lettere di individui che elencano riconoscenza per questo e per quello. Anche i negozi sono zeppi di ‘Thank you cards’, di tutti i tipi, fogge e colori.
La cinese del nord mi diceva che da loro tra parenti e amici stretti neppure la parola ‘grazie’ si usa. Le cose si fanno per gli altri perché si sentono nel cuore e gli altri con il cuore rispondono, con i gesti, ma senza dire grazie. Mi è tornata come in un flash una scena al mare in Italia. Un’amica romana al telefono, in una lunga conversazione con la figlia ancora a Vancouver. La ragazza ventenne le parla dei suoi problemi di vita e la mia amica cerca di consigliarla e consolarla da madre con un bel bagaglio di esperienza alle spalle. Quando il cellulare viene riposto in tasca l’amica mi racconta ‘Sai che mi ha detto Laura alla fine? Thank you mamma. Thank you… ma grazie di che cosa? Come fa a ringraziarmi se mi stanno a cuore i suoi problemi e cerco di aiutarla? È ovvio, no?’
All’epoca avevo soltanto sorriso, ma poi, quando mi è capitato con i miei figli (nati in Canada), sentirmi quel ‘grazie’ alla fine delle nostre parole mi ha portata in un’altra dimensione. Come se avessi fatto qualcosa di strano e non di naturale, logico e lapalissiano.
È vero che da quando vivo in Canada uso la parola ‘grazie’ molto più spesso, insieme a ‘ sorry, I’m sorry’. ‘Scusa’, ‘mi dispiace’… ma di che? Di essere al mondo? Non è che con l’abuso si svuoteranno di significato, come ‘how are you’ che non vuol dire più niente? O meglio che non ci si aspetta niente, che non si vuole sapere niente. Ed allora perché non dire soltanto ‘how are you’, senza intonazione interrogativa, ‘how are you’ puoi stare morendo di fame, ma la cosa non m’interessa più di tanto, puoi essere sul punto di rendere l’anima, ma sono problemi tuoi, tutto quello che m’interessa dirti è ‘come stai’, ma di come stai tu oggi non me ne importa assolutamente niente. Ed io oggi sto male. E non soltanto oggi sto male, anche domani e dopodomani e venerdì e sabato. Ed aggiungiamo pure domenica. Però mettiamoci un grosso punto qui perché non ne voglio sapere di stare male anche domani.
La cinese del nord mi diceva anche che da loro i biglietti di auguri e di ringraziamento non si usano affatto e quei pochi che ci sono in giro si danno ai bambini, non agli adulti.
Il Canada è pieno di bigliettini, anzi di bigliettoni di tutti i tipi (a parte quelli verdi). Esistono addirittura negozi specializzati, ma anche le cartolerie ne sono strapiene e perfino i supermercati dove, accanto alle bistecche, broccoli e gelati ci sono intere file dedicate ai compleanni, agli anniversari, alle condoglianze, alle congratulazioni ed alle ‘guarisci subito che ti aspettiamo’. E poi naturalmente gli auguri di compleanno si sotto dividono per: figlia, figlio, moglie, marito, genero, nuora, suocera, suocero, padre, madre, amico, boss, cane, gatto, serpente.
E i nemici, perché non preoccuparsi anche dei nemici?
Gli anniversari, oltre che differenziarsi per intestatari, sono anche in ordine cronologico, un anno dopo, cinque, dieci, venti, mille. Ed anche i compleanni hanno delle sottocategorie se si raggiungono tappe importanti come i venti, trenta, quaranta o cinquanta anni. Dopo i sessanta si finisce nella lista dei derelitti. Da vecchi nella società nordamericana si scompare nel silenzio.
È un’impresa alla Cristoforo Colombo trovare un bigliettino di auguri nudo e scarno, dove non ci sia scritto assolutamente niente; è di una comodità rincitrullente scegliere una frase qualsiasi ed aggiungere soltanto la firma. Diventa complicatissimo riuscire a trovare qualcosa che piaccia.
A Natale ovviamente nei negozi arrivano valanghe di cartoncini. Tutti se li mandano e li espongono sul cornicione del caminetto. Più ne hai e più vuol dire che gli amici ti pensano e ti vogliono bene. La tua bontà è misurata dal numero di biglietti di auguri. Quando organizzi feste arrivano col vino e un cartoncino. Che bisogno c’è? mi chiedevo le prime volte. Perché una busta grande così con dentro un biglietto altrettanto grande? Non possono dirmelo a voce buon natale e felice anno nuovo?
In avanti con gli anni li ho trovati comodi. Se ho tanta gente a cena e non riesco a notare chi mi ha portato chi, scoprire il cartoncino attaccato alla bottiglia mi rende saggia e previdente. Mi fa evitare che, una volta invitata dagli amici, finisca col portare a casa loro proprio la bottiglia che hanno regalato a me. Al solito, c’è sempre il lato positivo nelle cose… se ci si ricorda di cercarlo e trovarlo.
Un’altra sfornata di buste e biglietti colorati avviene a San Valentino. Tra bambini, adolescenti, giovani, adulti, fidanzati, sposati, compagnati. All’asilo comunque non me li aspettavo proprio e invece, i primi anni che i miei figli erano fuori casa, eccoli tornare con valanghe di lettere di amicizia e di affetto. Che loro ricevevano a disagio e un po’ sconfitti. Perché non gliel’aveva detto la mamma che era San Valentino e dovevano preparare frasi di riconoscenza, gratitudine e amicizia per tutta la classe? E che ne sapevo io? San Valentino per me era cominciato a 18 anni e finito a 20. Chi se ne ricordava più? Ma qui, oltre a thank you e how are you c’è un abuso astruso e diffuso della parola love. Love per gli amici, conoscenti, figli, genitori, nonni, bisnonni e poi per tutta la gamma dei ‘dates’, boy-girl-friend, fiancé, moglie-marito, partner e compagno; love per le città, i campioni, gli sport, i monumenti. Insomma un love grande quanto l’universo, che non vuol dire più nulla, come l’how are you.
All’inizio ci credevo all’how are you e rispondevo da italiana del sud, con qualche particolare di un inaudito malanno che non interessava a nessuno. Ho imparato subito ed ho sostituito la lista con ‘fine, thank you’ fino a quel giorno che con la guancia gonfia come un otre mi recai dal dentista. L’infermiera mi fece sedere sulla famigerata sedia, mi osservò scandalizzata l’ascesso dilagante e poi cortese mi chiese ‘and how are you today?’
Fu quel ‘today’ ad ingannarmi, ad impappinarmi, a portarmi sulla cattiva strada. Fino ad allora nessuno aveva precisato ‘oggi, come stai oggi’, si erano limitati al ‘come stai’, quindi voleva dire che l’infermiera era stata sincera, voleva proprio sapere come stavo oggi… e cominciai… ‘una nottata terribile, non ho dormito per niente, questo dente è stato un orrore’. Lei, che alla parola ‘nottata’ aveva già girato la testa, quando sono arrivata a ‘dormito’ si è alzata e prima che articolassi ‘dente’ era fuori dalla porta. Sono rimasta come un carciofo strozzato. Ho giurato a me stessa che non ci sarei cascata mai più: pur se agonizzante, all’how are you avrei risposto ‘fine, thank you’. Fine, perché così dicevano tutti e solo così avrei dovuto rispondere anch’io.
L’occasione non si fece aspettare.
Ero a letto in preda a dolori atroci post partum, fisici e psicologici. Mi telefona un’amica. ‘How are you?’ Straziata dalle fitte rispondo: ‘Fine, thank, you.’ E lei mi propone di venire a trovarmi ed io le rispondo che non può perché sto soffrendo come una dannata. Ma mi avevi detto che stavi bene, si scusa… E poi è stato il mio turno di scusarmi, di dirle che stavo malissimo, che avevo mentito… Ma perché avevo mentito? insiste lei, non potevo dirle che stavo male?
Dio, com’è complicata la vita quando ci si mette!
Un’altra cosa tipica del Canada è salutarsi quando ci s’incontra sparsi al mare, nei parchi, in montagna, per le strade solitarie. Quando mia madre venne a trovarmi la prima volta, in una delle nostre passeggiate mattutine mi vide salutare un bel po’ di gente.
Sono tutti tuoi amici? mi chiese, però, ne conosci di gente!
Chi? Quelli là? No, no, non li ho mai visti prima.
E perché vi salutate?
Boh, si usa così.
Ah.
Si usa così, è simpatico, siamo in pochi, dirci ‘ciao’ ci fa sentire più vicini, meno estranei, più disponibili. Un sorriso che si apre, una mano che aiuta, uno sguardo che accompagna… non è il Canada il paese della pace?