I diciott’anni rappresentano una tappa fondamentale nella vita dei giovani canadesi: esami provinciali per il diploma di scuola secondaria (qui obbligatoria) e stacco dalle famiglie.
Non li ho visti appassire sui libri i miei figli, nemmeno in preparazione degli esami. Sembrano che i corsi di studio non siano molto impegnativi e le materie più difficili sono obbligatorie solo per chi vuole iscriversi all’università, con il risultato che ci si può diplomare per esempio studiando economia domestica, lavorazione del legno, disegno, educazione fisica o quant’altro (una marea) disponibile. Nemmeno le pretese da parte degli insegnanti sono assurde, tutt’altro. Gli studenti sono per lo più giustificati, capiti fino all’inverosimile, e blandamente incoraggiati. Un professore di matematica ebbe l’ardire di scrivere sulla pagella quadrimestrale di mia figlia che un misero sei era più che soddisfacente perché palesava gli sforzi compiuti dall’alunna. Ma di quali sforzi parlava se quella passava tutto il tempo a cinguettare con le amiche?
Con fare gesuitico, ed in più da ex-insegnante mi recai subito dal suddetto e gli esposi tutte le mie rimostranze, facendogli presente come (opinione sempre personale, ma interessata) stava così minando il futuro di mia figlia. Era una persona in gamba, capì le premesse e le conseguenze; senza affliggere la studentessa in questione, ma con la sua collaborazione, si riuscì a farla diplomare con un bel nove in matematica.
L’esempio è triviale ma necessario, dal momento che mi chiedo spesso se non stiamo danneggiando più che aiutando questi giovani con un atteggiamento eternamente comprensivo, da statua immobile, come quella della libertà, che sbandiera in un paese dove la libertà, scrisse Arundhati Roi, è una patata fritta. Non so se sia meglio capirli e scusarli o spronarli e pretendere.
Comunque l’ultimo anno di scuola viene passato ossessionati dalla preoccupazione della graduation – cerimonia, festa, escursione, ballo di gala – e gli esami sono solo un codicillo superfluo e tedioso. Che con tante cose da preparare ci siano anche degli esami è il colmo, ma uno dove lo va a prendere il tempo? e meno male che il diploma glielo danno a giugno, prima ancora di farli quegli esami…
A quante scene da crepacuore e mozzafiato ho assistito durante l’ultimo anno di studi di mia figlia!
Per il diploma di mio figlio, il maggiore, eravamo in Messico. Lui frequentava un liceo internazionale, abitudini diverse (sì, sì, anche per lui il telefono erano i libri e gli amici i professori, ma quando andai a protestare con l’insegnante d’inglese perché non vedevo mai studiare mio figlio, lei mi rispose che dovevo essere ben contenta se lui conquistava certi risultati impegnandosi così poco – e mi zittì – per tre giorni…), grande festa, ma niente da rompicapo; per mia figlia si cominciò a parlare del vestito della grande sera dal mese di ottobre. Gli armadi delle amiche si riempivano di tentativi, perché noi non l’avevamo ancora cercato? Lo trovammo dopo Natale, uno di quei cosi lunghi da sera a un prezzo favoloso, perché scontatissimo. Stoffa e taglio niente di straordinario, ma il colore era da sogno ed a lei stava bene e poi, non essendoci tradizione simile in famiglia, la bimba capì subito che il grattacapo era suo e non sarebbe mai stato mio.
Animo tranquillo e matematica che progrediva, che si voleva di più dalla vita? Un date!!! Mancava un date, un ragazzo con cui fare la grande apparizione la serata della cena e del ballo, perché la sacrosanta prassi è che si entra nel salone di un magnifico e lussuoso hotel, al braccio di un ragazzo – se è la diplomata la festeggiata – o viceversa se è il ragazzo a terminare gli studi. Un professore all’ingresso del salone annuncia i loro nomi e la coppia fa l’entrata maestosa, mentre tutti gli astanti – parenti, amici e conoscenti – già seduti ai tavoli per la cena, applaudono con grandi battimani. Quindi non si poteva, era un no no no arrivare senza il cavaliere. E dove l’andava a trovare un date lei (mia figlia), che aveva passato i primi tre anni della scuola superiore in Messico, che era tornata in Canada l’anno prima ed era stata invitata (semi obbligata dalla madre) ad andare in una scuola per sole donne? Come faceva a conoscere ragazzi se le sue attività complementari erano danza classica, dove non aveva mai incontrato un esemplare dell’altro sesso e pianoforte con lezione individuale? Dove, dove, dimmelo tu? Ma perché mi hai mandata a questa scuola? E perché ce se siamo andati in Messico prima di tutto e così ho perso gli amici? E perché poi ce ne siamo venuti dal Messico dove avevo tanti amici? Insomma, eccomi qui a fautrice del suo destino e con la colpa di essere la causa di tutte le sue disperazioni che… meno male… arrivavano come la luna piena, soltanto una volta al mese.
Si salvò dalla luna storta un ciclo, quando incontrò ad una festa organizzata dalla scuola uno studente di un istituto per soli maschi, che ebbe però il difetto di innamorarsi di lei (che invece cercava solo un date per quella famigerata sera). Si promisero tuttavia, dal momento che ambedue ne avevano bisogno, di aiutarsi a vicenda, lui sarebbe stato il suo cavaliere e lei la sua damigella – in alberghi e giorni separati.
Date a posto, vissi momenti di relativa serenità. Si fa per dire, mancava il vestito per la cerimonia a scuola, mancava quello per la gita in barca dove pure avrebbero ballato. E così, altra ricerca negli armadi (miei) per propinarle gonne e camicie che non mettevo da anni pur se ancora impeccabili e decenti, seguita da rifiuti (suoi) più o meno giustificati ed alla fine il compromesso: si compra quello per la barca, ci si arrangia per la scuola.
Risolto tutto? ma no, che illusione!
Per andare al salone dobbiamo affittare una limousine. Siamo in quattro amiche, più quattro dates, ci costa centocinquanta dollari a persona, la limousine è a nostra disposizione dal pomeriggio, l’autista ci viene a prendere, ci porta al parco per le foto, ci accompagna in albergo e poi ci riprende di notte per portarci a casa di Ashley dove andremo a dormire.
(No, no la limousine proprio no! Ma figlia mia, come puoi infrangere un’ideale di libertà che tua madre ha cercato d’inculcarti da quando sei nata, come puoi sottoporti a quest’usanza miserevole americana!)
“La limousine? E perché? ma perché dovete seguire queste barbare usanze, perché non diventate rivoluzionari? La mamma di Ashley ed io vi prendiamo tutte e vi accompagniamo con la nostra macchina…”
“Mamma!!!!!???? (leggi troglodita) che ti viene in mente? Tutti affittano una limousine!”
“Appunto! E voi fate diversamente!… Sì, che idea! Ashley sa andare a cavallo, no? allora affittate un traino e vi lasciate tirare da lei…”
“Una zucca magari, come Cenerentola… mamma, come fai a pensarle certe cose?”
“E allora perché non prendete l’autobus?”
“L’autobus????” Mi guarda come fossi fuggita dal manicomio federale. L’ignoro. Insisto.
“L’autobus, oppure un furgoncino, uno di quelli da lavoro. Papà vi porta, e voi arrivate, tutte e quattro, con i vostri abiti lunghi sedute sulle panche di alluminio. Pensa che effetto, sareste su tutti i giornali l’indomani! Veramente buttate i soldi pagando quelle somme inutili, anzi, un’idea favolosa, i soldi che volete investire per la limousine, li portate a quell’ostello per poveri che è in centro e così regalate un pasto e un letto a chissà quante persone! Ed alla festa, sul serio, vi portiamo noi, dappertutto, fino a quando volete.”
Rimane un po’ meditabonda la ragazza, forse in fondo si rende conto anche lei che ci si può diplomare in maniera diversa. Il discorso cade al momento, sento che sarà ripreso.
Ne parlo con la mamma di Ashley, ormai parto all’attacco come un aereo da entusiasmo. Marianne mi ascolta come se fossi invalida o semincosciente. La fa ridere l’idea ma non si sposta più di un centimetro.
“Sai, mi dice, io mi ricordo ancora della mia festa del diploma. È importantissima qui, soprattutto per le ragazze, è un rito, una specie di festa di matrimonio… perché non sai se si sposeranno domani, se avranno quel giorno di gloria e allora…”
(e allora per evitare carenze si premuniscono e festeggiano prima, no, non mi convince, devo contrattaccare)
“…. ma è uno spreco inutile, l’interrompo… Per esempio, perché non proponiamo alle ragazze di andare in bicicletta… sui pattini…”
Scoppia a ridere.
“Non ce la farai mai, mi consola, la tradizione è troppo forte.”
E chi mi ferma? Torno all’assalto due volte al giorno con mia figlia, come le maree, e lei un momento mi ascolta e si lascia bagnare, un altro se ne vola come un corvo infastidito.
Dopo un tirare da parti opposte e col pericolo che la corda si spezzi e ci renda nemiche asserragliate, mi convinco che non c’è compromesso, cedo come un limone marcio, anche perché un temporale più grosso minaccia all’orizzonte: la rottura con Anton, il ragazzo incontrato alla festa e con cui si erano ripromessi reciproco aiuto.
Non me lo nominare nemmeno, non voglio sapere che esista!
“Ma tu gli hai promesso di accompagnarlo alla sua festa e lui ora come farà se lo pianti in asso?”
“Non ti preoccupare, ci andrò alla sua festa, non gli faccio il bidone, ma poi non voglio più sentir parlare di lui… e lui alla mia… mai! Hai capito, mai!”
“E come farai?”
“Non m’importa.”
“Ah.”
Un mese prima dell’evento è in crisi nera.
“Non puoi far accompagnarti da… da Richard… o da… Frank.. o (sono tutti amici di famiglia e di mio figlio)… o Romeo…”
“Mammaaa!”
L’urlo mi incenerisce e ancora bollente apro il frigo e mi accingo a cucinare. Però lei e i suoi problemi sono sempre lì, piantati nella mente come un seme di sequoia che germoglia e ingigantisce al secondo. Presto avrò una foresta in testa. È per questo che quando mi rinnova la storia della limousine, persisto, insisto, ma come un lucignolo agli sgoccioli alla fine cedo. Povera figlia, già ha il problema del date, adesso pure io mi ci voglio mettere… e sentendomi Giuda (verso le mie convinzioni) perisco a capofitto.
Eccoti i soldi per la limousine.
Una settimana prima della festa il temporale.
“Il mio vestito è uno schifo, mi sta malissimo, ci sono quelle che se lo sono fatte venire da New York, quelle che hanno speso più di mille dollari… anche un morto vede che il mio non ne costa nemmeno cinquanta, mi stringe sui fianchi, sta male, sta male…”
Arriva la crisi, il pianto, la corsa nella sua camera, la porta sbattuta, il mio cuore che fa patapum, la mia voglia di aiutare, la sua avversione all’assistenza…
Quando la burrasca si acquieta un poco le propongo alcuni negozi dove mi è sembrato di vedere begli abiti da sera per ragazze. Mi accompagna di malavoglia, se li prova senza nessun interesse, decide da persona matura e saggia quale in realtà è che non vale la pena comprare nient’altro, metterà quello che ha.
E adesso la domanda che mi preme da un pezzo e che ho evitato accuratamente di formulare per timore di risvegliare tempeste…
“…con il date hai deciso che fai?”
“Ah, sì, sì, nemmeno Sue ce l’ha, abbiamo deciso che andiamo tutte insieme, Ashley, Sue, Rebecca ed io, forse anche Cathy e Robin entreranno con noi, insomma… tutte ragazze…”
“Questa sì che è un’idea fantastica!!! E i loro cavalieri come arriveranno? Voglio dire quelli che accompagnano le tue amiche…”
“Ah, da soli, nemmeno annunciati.”
Sono così orgogliosa di mia figlia! Evviva l’amicizia e il femminismo.
… e quella fatidica sera, il loro ingresso, sei ragazze bellissime nei loro abiti da sogno, fu davvero trionfale. Furono le ultime ad entrare e i battimani arrivarono così calorosi ed entusiasti da parte di tutti i presenti che se ne parlò per un pezzo di quella semi-rivoluzione.
Si può intuire il pavoneggiamento materno.
La lasciammo dopo cena, tornò a casa verso mezzogiorno del giorno dopo, dopo una nottata, cominciata all’alba, a casa di Ashley.
Sembra che la prassi sia di ubriacarsi fino alla nausea alla festa di fine anno. Ai giovani qui è vietato entrare nei pub fino ai 18 anni, vietato comprare alcool, vietato consumarne, insomma un tabù da prendere a calci e incenerire per sempre quella fatidica sera. Lei mi raccontò che loro non avevano consumato alcool.
Anche se il diploma non è arrivato e gli esami sono ancora da sostenere, gli studenti che vogliono proseguire gli studi sanno già per quale università partiranno in autunno. Dal momento che sono tutte a numero chiuso, bisogna presentare domanda fin da gennaio, febbraio e le prime risposte di accettazione arrivano ad aprile.
Oltre al prom-ballo di cui sopra, alla limousine, alla sbornia-svezzamento, un’altra abitudine nordamericana è quella di allontanarsi da casa per l’università, cambiare aria, andare altrove, lasciare la famiglia e, anche se si rimane nella stessa città, andare a vivere al campus.
Le lezioni cominciano a settembre e terminano a fine aprile. I corsi sono semestrali o annuali e gli esami si danno a dicembre ed aprile. Non si vivono le vacanze natalizie assillati da libroni da ingurgitare. I voti finali risultano dalla media di due valutazioni, una intermedia e l’altra finale, e dai risultati di varie tesine presentate durante il corso. Non è possibile ridare un esame due mesi dopo, e l’anno accademico è strutturato come un anno scolastico; se non si supera un esame bisogna ricominciare daccapo quel corso, oppure frequentarne un altro d’estate o l’anno successivo.
Che cosa fanno gli studenti d’estate? Lavorano! Tutti. Hanno bisogno di guadagnare per pagarsi gli studi. Non sono tanti i genitori che li sovvenzionano. È così la prassi: a 18 anni te ne vai di casa, ma ti mantieni. Lo stato interviene con dei prestiti che tuttavia bisogna cominciare a restituire appena laureati. È normale che un giovane si ritrovi a 22 anni con la laurea in tasca, ma con 70mila dollari di debiti verso lo stato, per questo quasi tutti approfittano della pausa estiva per lavorare ed avere un minimo di disponibilità finanziaria.
I campus sono in generale attrezzatissimi, con strutture accademiche e sportive di prim’ordine, delle vere cittadelle del sapere… almeno all’apparenza.
E qui mi torna alla mente la villetta sul mare, una dependance della mia università dei primi anni settanta. Bisognava arrivare all’alba per sperare di ottenere un posto tra le prime file, altrimenti chi mai sarebbe riuscito a capirlo quell’assistente francese mentre faceva il dettato? E che ci voleva a sbagliare tutto e giocarsi l’esame? Begli anni tuttavia, nonostante tutto, nonostante i travagli per la tesi…
La tesi!!! Il docente che non mi seguiva… si nascondeva, scompariva. Come facevo a procedere se quello era introvabile, non si presentava a lezione, oppure se arrivava e lo bloccavo in corridoio, in malo modo mi rispondeva che non aveva tempo e di parlargli dopo? Dopo… quando? Dopo… dove?
In segreteria nessuno sapeva di lui (o tutti fingevano di ignorare tutto di lui… ma comunque… non ce l’abbiamo, ma anche se ce l’avessimo… non possiamo mica darle il numero di telefono dei docenti? E che scherziamo!)
I padri eterni si pregano, non s’interpellano.
Ma io mica potevo starci tutta la vita su quella tesi, e in più lavoravo, e in più avevo un viaggio di sette ore dalla mia sede all’università…
Mi disperai non poco; alla fine fui costretta a corrompere il bidello (che accettò solo perché ero nipote di caio che era cugino di tizio che era amico di sempronio) il quale mi suggerì in confessione di trovarmi nell’atrio alle sei e mezza di un tale mercoledì sera e finalmente sbarrai il passo allo sfuggente Giove. Il quale mi appioppò all’istante all’assistente che non mollai fino a quando non accettò di leggere le cinquanta pagine che avevo pronte da tre mesi.
Anche mia figlia sta preparando la tesi presso un’università canadese.
Ha cominciato a lavorare con la docente che la segue da circa un anno, prima come assistente di laboratorio per imparare e poi con la ricerca personale. Ogni settimana passa almeno tre ore a discutere con lei dei suoi progressi, ogni due settimane le invia un capitolo dopo l’altro che la prof legge, corregge, taglia, amplia, modifica, come un lettore attento che passa ore e non secondi ad esaminare…
Un altro aspetto piacevolissimo del rapporto tra studenti e professori è che qui si chiamano tutti per nome e, dal momento che non c’è distinzione nell’uso della forma del verbo e del pronome – che ci si rivolga a un amico o al presidente sempre you si usa e non il distintissimo lei italiano che innalza un muro invalicabile – allora si ha la sensazione che ci si conosce e ci si capisce da tempo immemorabile.
Te l’immagini chiamare per nome i docenti con cui abbiamo preparato la tesi? noi che… ci raccontiamo con la mia metà, neanche il titolo ‘professore’ consideravamo adeguato. Non erano quelli dei scesi dall’olimpo? e allora, come ci si rivolge a un dio?
Meno male che il riso dissacra i ricordi…
A un certo punto della mia vita in Canada frequentai anche alcuni corsi universitari, per lo più di scrittura creativa, in cui mi trovavo a far parte di una classe di una ventina di studenti (dovendo leggere e scrivere molto il numero di partecipanti era limitato). C’era sempre qualcuno nel gruppo che aveva più di trent’anni, come me, tutti gli altri avevano da poco superato i venti.
Ricordo la prima volta: erano passati oltre dieci anni dall’ultimo olimpo italiano, ma le immagini non erano affatto affievolite. Per questo sgranavo gli occhi come una marziana quando, guardandomi intorno in classe, in ogni direzione ne scoprivo una nuova. Qui uno studente allunga le gambe sul tavolino di fronte, lì un’altra sgranocchia un biscotto, a fianco un altro sorseggia rumorosamente da una lattina di coca cola e quell’altro laggiù ha scoperchiato un barattolino di yogurt a vi affonda un cucchiaio vorace. Ma che? Ho sbagliato classe e sono finita al ristorante? E quante bottiglie di acqua, di tutti i tipi, dimensioni e colori in giro! Sembra che la maggior parte degli studenti provenga da un’astinenza totale e prolungata di liquidi e solidi e che abbia soltanto queste due ore per rifocillarsi… poi sarà costretta al digiuno.
La mia prima reazione è: ma come fanno? ma non si vergognano? ma non hanno rispetto per il professore?
Mi aspettavo che lui sbraitasse da un istante all’altro, ma quello sorrideva come i putti del Rinascimento e dissertava di Browning e Joyce con la più grande magnanimità e comprensione.
Lo sbalordimento divenne totale e catastrofico quando sentii dei giovincelli appena sbarbati rivolgersi all’emerito professore apostrofandolo col nome, Jerry, che cosa dicevi Jerry, poco fa? Volevo diventare paladina, prendermi lo scudo e scagliarmi accanto all’offeso…
Ma quale offeso! Qui tutti per nome si chiamano, vanno perfino nei caffè insieme, studenti e docenti e, prenderne nota, ogni professore è tenuto a rimanere nel suo ufficio, a disposizione degli studenti, per due sacrosante ore a settimana e… ovviamente… non c’è bisogno di corrompere nessun bidello per ottenere il suo numero di telefono!